Telecom Italia e Alitalia. La prima ora parla spagnolo, la seconda probabilmente francese. Mancano soltanto alcuni passaggi burocratici legati alle parti correlate, e Telefonica sarà il nuovo padrone dell’ex monopolista, rilevando quote e debito degli altri azionisti riuniti nella holding Telco, ovvero Generali, Mediobanca e Intesa Sanpaolo. Un’operazione che si sta chiudendo in queste ore. Prima del 28 settembre, termine ultimo per comunicare la disdetta al patto parasociale. Secondo quanto si legge nella nota della società iberica, Telefonica salirà oggi al 66% di Telco dopo un aumento di capitale da 323 milioni di euro, 1,09 euro per azione. Poi, una volta incassato l’ok dell’Antitrust in Argentina e Brasile – dove opera Telecom con Tim Brasil e Telefonica possiede il primo operatore, Vivo – arrivare al 70% con un altro aumento da 117 milioni.
Fino al primo gennaio dell’anno prossimo, i diritti di voto rimarranno inalterati al 46%, poi potrebbero salire al 64,9 per cento. Infine, Telefonica avrà un’ulteriore opzione di acquisto per il 100% a partire dal 2014, con un prezzo tra 1,09 euro e il prezzo di mercato al momento dell’acquisto. L’esercizio dell’opzione prevede infine l’acquisto della quota parte del bond Telco in mano agli altri soci, che sarà liquidato per il 50% cash e il rimanente 50% o in contanti o in azioni Telefonica. La prima finestra utile per la scissione della holding sarà a metà 2014, e una seconda a inizio 2015.
In una nota Mediobanca annuncia che l’operazione ha ridotto da 78 a 43 milioni la propria quota parte del prestito soci e ha consentito di iscrivere un utile di 60 milioni. Ora Piazzetta Cuccia è dunque passata dall’11,6% al 7,3% di Telco, e dal 2,6% all’1,6% di Telecom Italia.
Proprio mentre Enrico Letta vola Oltreoceano per vendere il patrimonio pubblico, si decidono le sorti di due compagnie “di bandiera”. Destini incrociati messi a fattor comune da un grande assente: la politica industriale del Paese. Nella tarda serata di ieri, in centro a Milano e a pochi metri di distanza, si incontravano i vertici dei grandi azionisti dell’ex monopolista: Gabriele Galateri e Francesco Gaetano Caltagirone, presidente e vicepresidente di Generali, il direttore generale di Intesa Gaetano Micciché, il primo azionista fuori patto di Telecom, Marco Fossati. Intanto, a Parigi il consiglio d’amministrazione di Air France-Klm, che detiene il 25% del vettore, valutava se raddoppiare la propria quota al 50 per cento. Ipotesi per ora messa in congelatore per mancanza di dettagli, recita una nota diffusa dalla società nella notte.
Due storie opposte, da un lato una privatizzazione frettolosa sulle spoglie della quale ci ha mangiato un gran pezzo di capitalismo nostrano, dall’altra la difesa aprioristica di un’azienda decotta sotto il vessillo elettorale dell’italianità. Anche grazie all’aiuto di alcuni protagonisti della “razzia” Telecom, come Roberto Colaninno, oggi numero uno della Compagnia aerea italiana. L’obiettivo era nobile nelle intenzioni: impedire l’invasione dei giganti stranieri. Fallimentare nello svolgimento, sulla pelle dei piccoli azionisti e dei contribuenti. Che poi sono gli stessi. Oggi i barbari alle porte fanno meno paura: il debito di Telefonica è pari a 66,8 miliardi, quello di Air France-Klm a 5,3. Eppure il “sistema” è ancora più debole, schiacciato da operazioni sbagliate, frutto di logiche di relazione – Zaleski, i Ligresti, Zunino – e dai morsi della crisi finanziaria, in termini di costo della raccolta e aumento dei crediti dubbi. Molto semplicemente: non ci sono più i soldi per perpetuare dannosissime operazioni di sistema.
«Il Governo dovrebbe chiamare gli azionisti e dire: è vero che avete un morto in casa, ma non lo possiamo far morire e accompagnarlo al cimitero», ha detto alla Commissione Lavori Pubblici del Senato Vito Gamberale, ex capo di Tim ora amministratore delegato del fondo infrastrutturale F2i. Proponendo il conferimento di Metroweb, controllata che gestisce la rete fissa in alcune città, in Telecom. «Speriamo che Cassa Depositi e Prestiti voglia essere ancora protagonista nella vicenda di acquisto della rete», ha auspicato ieri il viceministro alle Comunicazioni Antonio Catricalà, altro grand commis di Stato. Difficile capire se il male minore sia una svendita a Madrid o un clamoroso ritorno al 1997. All’epoca al governo c’era Romano Prodi e il Tesoro voleva arrivare con i conti a posto all’appuntamento dell’euro. Mettendo sul mercato i propri gioielli, ma riservandosi di scegliere l’acquirente amico. Nel 2013 lo schema è identico, ma per ripagare gli interessi sul debito pubblico, cresciuto a dismisura nonostante il dividendo dell’euro abbia offerto una clamorosa occasione mancata di riforma. Stavolta però l’acquirente amico è senza soldi.
Sembra abbia vinto Madrid. Nonostante le tentazioni dirigiste. Come quella del commissario Agcom Antonio Preto. Il quale, a proposito dello scorporo della rete, ieri andava dicendo: «Forse dovremmo avviare i dovuti approfondimenti per accertare la sussistenza delle condizioni per imporlo come rimedio a garanzia della parità di accesso». Suscitando la risposta piccata del presidente Franco Bernabè e dell’amministratore delegato, Marco Patuano. Quest’ultimo ha chiarito: «Lo scorporo è un fattore tecnico mentre l’Equivalence of input (la parità di trattamento nell’accesso tra l’operatore dominante e quelli alternativi, ndr) è un fattore giuridico e operativo. Sul fatto che la formula più adeguata sia lo scorporo o la societarizzazione dipende anche dalla tipologia del dividendo regolatorio, perchè norme pro-investimento permettono di avere un’idea del ritorno sul capitale investito». Chiaro il riferimento alla decisione miope dell’Agcom di abbassare il canone d’affitto all’ingrosso dell’ultimo miglio della rete in rame da 9,68 a 8,28 euro. Una misura in controtendenza con l’orientamento europeo e le best practices di altri Paesi, come la Germania.
In questa partita Pantalone si è mosso con una buona dose di pressapochismo. Non che Bernabè abbia fatto meglio, da top manager: dal dicembre 2007, quando è tornato al timone, a oggi le riserve si sono ridotte di 1,6 miliardi l’anno, mentre in Piazza Affari, nonostante il +21% dell’ultimo mese, il titolo ha ceduto circa il 70 per cento. Scivolosa anche la sua presa di posizione contro gli “over the top”, come Facebook e Google: vero, non pagano gli investimenti sulla rete che trasporta i loro contenuti, ma è altrettanto vero che se non ci fossero loro, nessuno si connetterebbe.
Tempo e soprattutto denaro perso anche nel caso di Air France: nel 2008 mise sul piatto un miliardo, più il totale accollo di 1,5 miliardi di debiti. Berlusconi, che correva per Palazzo Chigi, rifiutò e organizzò la cordata. E se ancora non è chiaro quanto vuole spendere, di sicuro Air France non si accollerà il rosso di Alitalia. Bisognosa subito di un aumento di capitale tra 100 e 150 milioni – che i membri della cordata italiana, dai Riva a Benetton, alla Marcegaglia, non hanno soldi per o voglia di sottoscrivere – più altri 300 a servizio del piano industriale. Nelle cui linee guida, per non perdere gli slot di Linate, Alitalia è costretta a fare concorrenza diretta a Malpensa, aprendo nuove rotte sulle capitali europee. Regalando così ai concorrenti stranieri, complice la “dehubbizzazione” dello scalo varesino, preziosi passeggeri che ogni giorno partono dal city airport milanese in direzione Francoforte, Londra Heathrow o Parigi Charles De Gaulle verso l’Asia o gli Stati Uniti. Generando indotto e nuovi posti di lavoro.
Così, mentre solo una piccola impresa su tre naviga a più di 30 megabit al secondo, per volare in India da Milano tocca passare per Francoforte, Londra, Parigi. Di italiano nei nostri ex campioni nazionali rimane solo il nome: Telecom Italia e Alitalia.
Twitter: @antoniovanuzzo