Mercoledì 23 ottobre sono partite le negoziazioni sulla nuova Grosse Koalition tedesca. Non sarà nulla di breve: arriveranno a conclusione – forse – il 26 novembre. Ancora più grosso sembra essere il rischio di dimenticare le promesse elettorali della Cdu, il partito della Merkel, che garantiva di volersi impegnare a ridurre il debito pubblico. Allearsi con l’Spd significherà inserire nell’agenda di governo una serie di programmi sociali (in realtà sacrosanti) che non consentiranno il risanamento delle finanze statali.
Si vocifera, tra i liberali non entrati in parlamento e gli ambienti industriali, che la Koalition verrà siglata a suon di euro.
Ma la cancelliera, stavolta, qualche riforma la dovrà fare; e nei ristoranti attorno al quartiere amministrativo, durante le pause pranzo si mormora del timore dello “sguardo di Angela”, dolce con il popolo e impassibile di fronte alle traversie degli amici politici. Perché al centro di Berlino, come se fosse la K Street di Washington, non ci sono amici, ma solo alleanze motivate dalla permanenza al potere.
Per fortuna della Germania, e anche per un’etica politica assai evoluta, l’interesse della permanenza al potere si sposa spesso con quello nazionale. L’elettorato legge molto, e ha buona memoria di programmi elettorali e dichiarazioni pubbliche. Ad Angela è stata riconosciuta la capacità di mediare tra le richieste dell’Europa e le necessità economiche tedesche, sollevandosi una decina di spanne politiche oltre gli alleati liberali, e annientandoli. Se però finora l’attendismo ha giocato a favore della Signora del Cancellierato, non si può ignorare che i nodi politici tedeschi si avvicinano in fretta al pettine di Berlino.
Non ci si possono fare illusioni sul segreto del successo tedesco: è dipeso dal taglio del costo del lavoro – o, meglio, da un suo mancato adeguamento al livello di produttività e al costo della vita. I salari reali sono fermi almeno dal 1999. Il numero dei lavoratori a tempo pieno a basso stipendio (meno di due terzi rispetto al salario medio) è aumentato del 13,5% a 4,3 milioni di persone tra il 2005 e il 2010 – gli anni in cui la Germania ripartiva e poi affrontava la crisi globale meglio degli altri paesi europei.
Il sistema basato sulla presenza di “campioni nazionali” (Siemens, Volkswagen e compagnia) insieme al Mittelstand (le Pmi tedesche) è assai meno innovativo di quanto si possa pensare. Le grandi aziende conservano un sapore anni Settanta che è difficile da mandar via, e la maggior parte di esse – a detta di chi ci lavora – risente di tutti i problemi di lentezza e burocratizzazione tipici di qualsiasi altra grande impresa in tutto il mondo. Gli investimenti fissi sono calati dal 24% al 18% dell’economia rispetto al 1991, mantenendosi a livello costantemente più basso rispetto a quello delle sette principali economie del mondo.
Il successo non è neanche dipeso da particolari investimenti sul capitale umano. La percentuale di lavoratori giovani (25-34) con educazione avanzata in Germania è più bassa rispetto a paesi come Gb, Usa, Francia e Giappone, con professori che entrano in ruolo tardi (si ricorda umilmente al lettore: “tardi” rispetto ai paesi anglosassoni, non all’Italia, dove normalmente si diventa ordinari solo con certificato di andropausa conclamata) e sono pagati poco, almeno per i primi dieci anni da docente. In Germania le nuove generazioni non sono più educate rispetto a quelle precedenti (accademicamente parlando).
Non che sia facile per gli stranieri inserirsi nel mercato del lavoro tedesco ad alti livelli. Certamente esistono esempi egregi di personalità ben disposte, che sono state in grado di apprendere la bella lingua tedesca e gli assai diretti modi di interagire in ufficio. I lavoratori nei settori tecnici sono avvantaggiati. Ma in generale il sistema rimane chiuso a livello di quello giapponese o italiano: è difficile vedere stranieri alla guida di grandi gruppi. La Germania deve ancora dimenticare con fatica il retaggio della logica dei «Gastarbeiter» (lavoratori ospiti), come erano chiamati gli immigrati un tempo.
Crescere esportando grazie al costo del lavoro è una strategia pericolosa nel lungo periodo. La disoccupazione tedesca a settembre ha raggiunto il 6,6%, ma questo record non ha esercitato ripercussioni positive diffuse. Secondo uno studio realizzato nel 2012 dal Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung di Berlino, il 22% dei lavoratori tedeschi è a basso reddito: sono ormai otto milioni e guadagnano meno di 9,15 euro l’ora, con la piaga particolarmente diffusa tra giovani e donne. In paragone, in Italia solo il 12,4% dei salariati porta a casa così poco. Tra i lavoratori malpagati tedeschi, quelli a tempo pieno peraltro devono lavorare in media 45 ore a settimana, e un quarto di essi anche 50.
Si fa presto a dire – come hanno fatto i liberali per anni – che ciò sia la conseguenza dell’apertura del mercato del lavoro a persone non specializzate, donne e pensionati: in Germania si è creata e consolidata una classe di lavoratori di serie B, con cartellino permanente di appartenenza. Se un tempo un ragazzo o una ragazza poteva lavorare in un ristorante e pagarsi gli studi, oggi deve impazzire con compensazioni orarie da 6 euro l’ora e mance inesistenti. La mobilità sociale è in diminuzione, e i tedeschi lo sentono.
Stavolta Angela ha la possibilità e l’obbligo di affrontare la situazione: l’egemonia politica implica potere e responsabilità. In questo mandato si gioca il suo ingresso nella storia, vicino ad Adenauer e Kohl. La sua posizione è assai più difficile di quanto non si possa credere: una dimostrazione di fiducia simile da parte dell’elettorato, come il trionfo alle urne in settembre, significa che la Germania si aspetta un mandato forte. Vinta la guerra della crisi economica (per ora), Angela dovrà dimostrare di riuscire a gestire la pace. E potrà essere ancora più arduo rispetto a prima.
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