Sto per guardare un’intervista a David Cage, regista, sceneggiatore e fondatore di Quantic Dream, la casa di sviluppo dietro a Beyond: Due anime,un videogioco appena uscito per Playstation 3. I protagonisti sono Ellen Page (Juno, Inception) e Willem Dafoe (Platoon, L’ultima tentazione di Cristo, Spider-Man), digitalizzati e trasformati in modelli 3d in esclusiva per il gioco.
Prima che possa vedere il video dell’intervista, c’è un filmato pubblicitario (obbligatorio) di un altro videogioco, Battlefield 4: ascolto qualcuno parlare mentre un aeroplano si schianta su un’isola e segue una sparatoria sulla riva. La voce appartiene a uno degli sviluppatori che, esaltato, ride e dice: «È incredibile, posso distruggere tutto, atterrare su questo atollo e poi PAM! essere con un fucile in mano sul bagnasciuga». La pubblicità termina.
Dopo alcuni secondi di baccano compare Cage. Schivo, ultraquarantenne, marcato accento francese. Dice: «Da una parte ci sono i giocatori hardcore, secondo cui i videogame dovrebbero consistere in sparatorie continue, azione, competizione, adrenalina. Dall’altra parte ci sono persone che non conoscono i videogiochi e credono che siano violenti, complicati, poco interessanti. Il nostro compito è convincere entrambi che possano essere qualcosa di diverso».
L’attore Willem Dafoe, digitalizzato per di Beyond: Due anime / PS.com
Beyond: Due anime, e il suo predecessore Heavy Rain sono effettivamente lontani anni luce dai classici videogame. La loro filosofia consiste nella costruzione di un legame empatico tra giocatore e personaggio e questo rapporto passa per un uso particolare dei comandi: giocando, vi troverete a scegliere quale cibo prendere dai piatti, mettervi un paio di scarpe, tentare di prendere sonno o baciare qualcuno utilizzando i tasti che normalmente vi consentirebbero di correre, fare esplodere teste, bere pozioni fortificanti o fare inseguimenti all’ultimo respiro. Tornando all’esempio di Battlefield 4: avete mai sparato ai nemici da un elicottero? Forse no, ma è lecito pensare che abbiate tenuto in mano una forchetta. Ed è questo il punto.
Nella concezione di Cage: la sincronia si ottiene, percettivamente, grazie al richiamo di un gesto arcinoto, nuovamente focalizzato grazie al meccanismo di straniamento che consiste nel riprodurre una procedura familiare in un contesto differente (come quello di un videogioco dal potenziale cinematografico, talmente perfetto da far pensare alla realtà virtuale). Ancora secondo Cage, esiste una differenza tra una relazione emotiva con il protagonista di un videogioco e l’identificazione che si ottiene spesso grazie all’uso della soggettiva. Non bisogna essere un personaggio per provare qualcosa quando si tiene un controller in mano. Bisogna, piuttosto, assorbire la sua vicenda lentamente, farla propria attraverso piccoli movimenti e decisioni, allontanarsi da sé secondo le regole di un rapporto di vicinanza e non di adesione. Ed è alla luce di questa riflessione che Beyond: Due anime si presta alla lettura di metagioco, un gioco che parla — anche — del giocare.
Ellen Page e Willem Dafoe durante il processo di motion capture
La figura centrale del videogame – quella che giochiamo in terza persona – si chiama Jodie Holmes ed è interpretata da Ellen Page (digitalizzata grazie una tecnica chiamata motion capture, Cage dice di averla sempre immaginata con le fattezze dell’attrice). Seguendo l’intreccio temporalmente sfasato della narrazione, la accompagniamo per un arco di quindici anni mentre fa i conti con un’entità sovrannaturale che la affianca da quando è nata: Aiden. Uno spirito che guarda letteralmente con i nostri occhi ed è “un animale in gabbia”, capace di eseguire le istruzioni ma allo stesso tempo di avere reazioni autonome come uccidere, possedere, distruggere, curare.
È legato a Jodie, ma non è lei. Sei tu, sono io. È il giocatore, secondo la particolare concezione del legame empatico di David Cage. È lo strumento, più o meno bene integrato nell’ingranaggio complessivo, attraverso il quale ci viene chiesto di prendere coscienza del nostro sdoppiamento (giocatore e giocato), ma anche del nostro statuto di spettatori attivi.
Un vecchio paradosso che il cinema e la televisione non hanno ancora smesso di esplorare e che, pur essendo per certi versi ancora più trasparente nella meccanica dei videogiochi, Cage prova a esplodere da molti anni (tra valanghe di critiche).
La nozione di attività nei giochi della Quantic Dream, peraltro, non è realmente legata ai comandi (decisamente elementari, gestibili da tutti), quanto al processo decisionale. Nel corso delle storie si viene invitati a fare delle scelte che non solo condizionano lo svolgimento degli eventi, ma anche il carattere del protagonista. Anche questo elemento non è squisitamente ludico, ma viene spesso utilizzato per veicolare un messaggio. Un esempio pratico: nel corso di Beyond, a un certo punto Jodie viene portata a una festa di suoi coetanei. È una bambina reclusa con note abilità paranormali, riceve un’istruzione casalinga e non è familiare con le regole dei gruppi di adolescenti. In questo capitolo esistono moltissime possibilità di azione: baciare un ragazzo o non farlo, dare una prova del proprio potere o rifiutare, ballare o non ballare e così via. Qualunque decisione venga presa, però, l’esito non cambia: Jodie viene chiamata “strega” e chiusa in un armadio. Una maniera come un’altra per spiegare che, certe volte, non c’è maniera di combattere contro il pregiudizio.
Sto finendo di giocare a Beyond: Due anime. Controller stretto tra le mani, gambe incrociate sul tappeto. Sto piangendo come una ragazzina e non posso nemmeno dirvi perché, altrimenti rischio di rovinarvi la sorpresa. Vi basti sapere che le ultime due decisioni del videogame hanno carattere talmente esistenziale che sarebbe il caso di scomodare Kierkegaard.
Sono stata io o è stata Jodie ad aver preso una strada, piuttosto che un’altra? È lei, ne sono sicura, io mi sono limitata a fare quel che credevo fosse meglio per la ragazza – e prima ancora, la bambina – con cui avevo passato le ultime dieci-undici ore.
Quando mi sono sollevata, dopo i lunghi titoli di coda, non ho lasciato il gioco nella Play; me lo sono portato dentro. E credetemi: tuttora mi chiedo se quel che ho scelto, l’ho scelto bene.
Un’ultima postilla, dunque: il finale di Beyond: Due anime è giocabile più di una volta perché ha esiti differenti. Ma non credo che li vedrò con i miei occhi, quel che è fatto è fatto. Anche se gli altri finali, poi, me li sono andati a leggere in rete.
LEGGI ANCHE: Ho giocato sette giorni a Gta V, senza sparare un colpo
Twitter: @marina_pierri