Dal 1° al 15 ottobre si tiene il primo censimento nella storia della Bosnia Erzegovina indipendente. L’ultimo, infatti, risale al 1991, quando c’era ancora la Jugoslavia. La posta in gioco è alta: per la prima volta, infatti, verranno rese pubbliche le dimensioni reali della pulizia etnica compiuta durante la guerra degli anni Novanta. In un paese dominato dal concetto di equilibrio tra le tre ‘nazioni costituenti’ (bosgnacchi, serbi e croati) contare la popolazione significa inevitabilmente riaprire i capitoli chiusi con l’accordo di pace di Dayton, nel 1995.
L’ultima volta era il marzo 1991. La Bosnia Erzegovina si chiamava ancora Repubblica Socialista di Bosnia Erzegovina e faceva parte della Jugoslavia, che da lì a pochi mesi avrebbe iniziato a disfarsi. Esistevano ancora, gli ‘jugoslavi’ – molti nati da matrimoni misti – rappresentanti circa il 5 per cento della popolazione. Ma più di loro erano i Bosgnacchi (43%) i Serbi (31%) e i Croati (17%). Queste cifre avrebbero trascritto, per l’ultima volta, l’estrema complessità del tessuto sociale bosniaco, prima che venisse stravolto dalla guerra iniziata nell’aprile del 1992. Un conflitto tra i più sanguinosi della storia recente, che secondo stime Onu costò la vita a più di duecentomila persone, e che costrinse altre 2.200.000 (circa un abitante su due) a lasciare casa.
Gli accordi di pace conclusi a Dayton, nel novembre 1995, avevano un solo scopo: far tacere le armi e preservare, allo stesso tempo, l’integrità territoriale della Bosnia Erzegovina, divenuta ormai uno stato indipendente. I trattati, che gettavano le basi della struttura istituzionale del Paese, non si premurarono di creare una Costituzione che ne garantisse la governabilità. A quello, si pensava, ci si sarebbe arrivati in un secondo momento: l’importante, dopo tre anni di combattimenti, era che le tre fazioni in lotta accettassero di convivere nello stesso Stato.
La spartizione etnica del Paese
Da quel momento, la politica in Bosnia Erzegovina è sempre stata concepita come un bilanciamento esasperato tra le tre «nazioni costitutive», non come una normale dialettica tra partiti con programmi elettorali. E quelle cifre, raccolte nel marzo 1991, divennero «un vero e proprio mantra, una scusa per la spartizione del paese, e un alibi per l’odio interetnico», secondo l’attivista Lidija Pisker, dell’ONG bosniaca ’Diskriminacija’: «quando, nel corso dell’ultimo censimento, i cittadini bosniaci risposero alla domanda riguardante la propria appartenenza etnica, non avrebbero minimamente potuto immaginare fino a che punto la loro risposta avrebbe influenzato la loro vita nel corso dei vent’anni successivi».
Tutte le istituzioni del paese, oggi, sono disegnate per garantire un’equilibrata rappresentazione delle tre etnie, alle quali viene solitamente attribuito anche un diritto di veto sulle questioni giudicate ’sensibili’. Il concetto è stato ribadito anche territorialmente: la Bosnia Erzegovina venne smembrata in due entità, la Republika Srpska (corrispondente grosso modo al territorio occupato dalle armate serbe durante il conflitto) e la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (FBiH), a sua volta suddivisa in cantoni bosgnacchi e croati.
Da quel momento, contare gli abitanti del paese, studiare l’evoluzione della popolazione, è diventato il maggiore dei tabù. Le istituzioni, nel corso dell’ultimo ventennio, hanno dovuto lavorare sulla base di stime ONU, o più prosaicamente su dati non aggiornati. Ma adesso l’Unione Europea ha imposto a Sarajevo di condurre un censimento: «la Bosnia Erzegovina è l’unico paese in Europa a non aver realizzato un censimento negli ultimi vent’anni», dichiarava Peter Sørensen, rappresentante speciale dell’UE nel paese, solo qualche mese fa. «Eppure, statistiche accurate e affidabili sono essenziali per governare qualsiasi stato. Sono la chiave per lo sviluppo futuro del paese e per la sua integrazione europea, e permetteranno alla Commissione di valutare gli indicatori economici base, al fine di capire se la Bosnia Erzegovina soddisfa i criteri per l’integrazione stabiliti a Copenhagen e quelli previsti dall’accordo di stabilizzazione e associazione».
Un censimento che significa guerra
Negli ultimi vent’anni, la Bosnia Erzegovina è rimasta un paese paralizzato e gravato da pesantissime inefficienze istituzionali. La riforma degli accordi di Dayton, fino ad ora, si è rivelata una missione impossibile. L’equilibrio raggiunto in questi anni rischia però adesso di essere messo a dura prova, per il semplice fatto che il mantra del 1991, l’equazione fondamentale della Bosnia Erzegovina indipendente, verrà rimesso in discussione. Si scoprirà, molto probabilmente, che i Bosgnacchi hanno accresciuto il proprio peso demografico; ma anche che la percentuale dei Croati è diminuita (in molti, avendo anche un passaporto croato, hanno scelto di emigrare), rinforzando così le proposte nazionalistiche di chi propugna, come ’unico modo per tutelare la presenza croata nel paese’, la creazione della terza entità autonoma, l’Herceg-Bosna che le milizie dell’HVO (il Consiglio croato della difesa) tentarono di attuare negli anni novanta.
Verranno al pettine, inoltre, anche i nodi rimasti irrisolti dopo la fine della guerra: quelle realtà che, per molti versi, sono sotto gli occhi di tutti, ma che non sono mai state ufficializzate ’nero su bianco’. Si saprà, quindi, che la Republika Srpska è stata creata attraverso l’espulsione forzata dei non-serbi. Ma anche che Sarajevo, lungi dall’essere quella «Gerusalemme d’Europa» di cui spesso di parla, è diventata una città a schiacciante maggioranza musulmana. O che, ancora, a Mostar non vivono più Serbi, che rappresentavano circa il 18% della popolazione nel 1991.
Dopo ottobre, insomma, la Bosnia Erzegovina sarà costretta a confrontarsi con l’immagine reale di se stessa. Inevitabilmente, questa prospettiva ha fatto sì che si scatenasse un vero e proprio revival nazionalista attorno alla questione. I politici hanno insistito, nonostante le raccomandazioni dell’Eurostat (che coordina il progetto), affinché nel questionario comparissero le domande relative alla lingua, alla religione e all’affiliazione nazionale. Non sarà obbligatorio pronunciarsi, ma da più parti si sono fatti sempre più insistenti gli appelli a rispondere «nel modo giusto». Soprattutto per quanto riguarda i Bosgnacchi, che sono evidentemente quelli che hanno più da guadagnare dal censimento, provando di essere il gruppo etnico dominante.
Il rischio delle elezioni
La situazione, già complicata, è ancora più tesa per il fatto che, probabilmente, il censimento non avrebbe potuto essere convocato in un momento peggiore. La situazione nel paese è andata aggravandosi nel corso degli ultimi anni. Il Consiglio dei ministri, formato a fine 2011 dopo estenuanti trattative durate 14 mesi, non ha saputo finora promuovere le leggi necessarie a smuovere il paese dalla sua profonda crisi economica, nella quale sta soffocando per colpa di un crescente indebitamento internazionale e di un numero di disoccupati che si aggira attorno al 30% della popolazione.
In questo scenario desolante, il prossimo anno si tornerà alle urne, dopo che già le elezioni amministrative del 2012 avevano premiato i partiti nazionalisti. «Il rischio concreto», dice Lajla Zaimović-Kurtović, dell’Ong ’Iniziativa per la libertà d’espressione’, «è che i risultati del censimento siano resi noti in concomitanza con la campagna elettorale». E che, quindi, la situazione possa degenerare. «Non possiamo evitare le pressioni nazionaliste all’interno dell’opinione pubblica», conclude: «ma spero vivamente che non facciano troppi danni. Questo censimento è davvero necessario, per il bene del Paese».
Se i motivi di preoccupazione non mancano, tuttavia, ci sono anche segnali incoraggianti. Durante il censimento pilota, condotto lo scorso ottobre per verificare la bontà dei questionari, il 35% degli intervistati ha deciso di dichiararsi semplicemente «Bosniaco ed Erzegovese», rifiutando la tradizionale tripartizione della popolazione in Bosgnacchi, Serbi e Croati. Una novità interessante, che sottolinea la volontà di dichiararsi fedele alle proprie istituzioni, piuttosto che a una identità di tipo ’etnico’ e nazionalista.
«I cittadini di Bosnia Erzegovina sono stufi di questa propaganda che li discrimina», sottolinea Darko Brkan, presidente dell’organizzazione Zašto ne? (Perché no?), «questo censimento servirà forse a farci capire che le divisioni etniche impediscono al paese di progredire». In assenza di una vera alternativa politica, dichiararsi cittadino di Bosnia Erzegovina, e non ‘Serbo’, né ‘Croato’ o ‘Bosgnacco’, diventa quasi un atto di resistenza nei confronti dell’etnocentrismo dominante delle istituzioni.
Twitter: @RodolfoToe