Alla legge più discussa del momento hanno lasciato in eredità il proprio nome. Umberto Bossi e Gianfranco Fini. Una norma sull’immigrazione tornata prepotentemente al centro del dibattito pubblico, testimone involontaria di due parabole politiche declinate inesorabilmente. Era il 2002 quando il Parlamento approvò quella norma. Ribattezzata per i posteri con l’identità dei due primi firmatari, allora protagonisti indiscussi della scena politica. Due che non si sono mai sopportati, ironia del destino. Il primo, leader incontestato della Lega Nord, ministro per le Riforme e la devoluzione. Il secondo, vicepresidente del consiglio e principale alleato del Cavaliere Silvio Berlusconi.
Quante cose sono cambiate da allora. Di fronte all’ennesima tragedia del mare, oggi l’Italia riflette sull’impostazione di una legge che doveva regolamentare l’immigrazione con un giro di vite: dalla necessità di un contratto di lavoro per entrare nel nostro Paese, alla permanenza nei centri di identificazione e l’espulsione per i clandestini. Intanto, mentre il governo valuta la possibilità di archiviare per sempre quell’impianto, dei due firmatari si sono perse le tracce.
Ministro degli Esteri, vicepremier, presidente della Camera dei deputati. Ma soprattutto leader riconosciuto della destra post-missina. La carriera di Gianfranco Fini è terminata lo scorso febbraio nel modo più rumoroso e doloroso possibile. Con la mancata elezione in Parlamento. L’ex delfino di Almirante è stato letteralmente fagocitato da Silvio Berlusconi, il suo più grande alleato di un tempo. Dopo aver sacrificato la sua Alleanza Nazionale sull’altare del bipolarismo, era confluito simbolo ed elettori nel grande progetto del Popolo della libertà. Forse il principale errore. Alla fine del 2010, il tentativo di affrancarsi dall’ingombrante leader gli è costato la carriera.
Prima la scissione di Futuro e Libertà. Poi il maldestro tentativo di sfiduciare il governo del Cavaliere. Ci sarebbe anche riuscito, Fini, se la notte prima del voto Berlusconi non fosse riuscito a convincere alcuni deputati a non consumare lo strappo. Fallito il ribaltone, il declino del presidente di Montecitorio è proseguito inarrestabile. I sondaggi sempre più inclementi, il ruolo politico sempre meno centrale. L’ultima tappa del calvario è stata l’alleanza con Scelta Civica di Mario Monti. La teorizzazione di un grande centro alternativo a Pd e Pdl, che gli elettori di destra non hanno condiviso.
E così Gianfranco Fini è scomparso. La piccola Fli fuori dal Parlamento, incapace persino di superare le pur basse soglie di sbarramento del Porcellum. Il piccolo gruppo di dirigenti alla deriva, in cerca di rifondare un movimento di destra, in continuo contatto con le tante sigle che ancora rivendicano l’eredità di quel passato. Tutti, tranne lui. Il grande leader di quella destra ha fatto un passo indietro. Sconfitto nello spirito e nel fisico, raccontano. Impegnato a scrivere un libro di memorie, forse. In forzato silenzio da ormai quasi otto mesi.
Per Bossi il discorso è simile. Il Senatùr passa le giornate vagando per Montecitorio, dalla sala fumatori alla buvette, accompagnato dalla fedele segretaria Nicoletta e da un gigante buono di nome Andrea. Lo difendono dai mulini a vento, perché ormai il vecchio Capo «non fa più notizia», come si dice in gergo giornalistico. Nei giorni scorsi lo statista di Gemonio ha difeso la sua creazione: «La Legge Bossi-Fini non deve essere cambiata, chi vuol entrare nel nostro Paese deve avere un contratto di lavoro e l’Europa sembra che se ne freghi. Non ha capito che gli immigrati entrano in Sicilia, vengono in Lombardia, poi cercano di raggiungere la Germania o la Francia». Parole cadute nel vuoto, perché a tirare le fila della Lega Nord è adesso Roberto Maroni, accusato dalle frange più indipendentiste del leghismo padano di voler ricreare la Democrazia Cristiana.
Bossi quindi continua a vagare. I “suoi” hanno creato l’associazione Padania Libera, per ridare slancio al movimento. Ma grosse novità non si vedono all’orizzonte. E Maroni li ha già minacciati di espulsione. Molti bossiani pensano che al prossimo congresso della Lega di Torino del 15 dicembre potrebbero esserci delle novità. Difficile che Bossi si ricandidi. Più probabile che il vecchio Capo cerchi di ostacolare Matteo Salvini, lanciato verso la segreteria, preferendogli la mente economica Giancarlo Giorgetti. Troppe incognite, troppo fumo di sigaro. Quando erano Re, Bossi e Fini, se le davano di santa ragione. Adesso, esattamente come la legge che hanno scritto, rischiano di essere dimenticati dalla storia.