Ecco, oggi John Lennon avrebbe 73 anni. Se fosse ancora vivo, se un pazzo omicida non l’avesse eletto ad icona di una vita spezzata, oggi probabilmente sarebbe tinto, magari di grigio e non di mogano, perché era molto chic, ma avrebbe anche lui il volto pieno di rughe: magari avrebbe organizzato un concerto a Lampedusa – Give peace a Chance 2013 – usando come spalla la voce nera della settantenne Rita Pavone.
Invece Lennon è morto, Papa Francesco parla di un Dio relativo, e le rughe sono la ragnatela che accompagna il volto di Sir Paul McCartney, il Beatle che ha avuto in dono dalla vita, la celestiale pena di sopravvivere al suo stesso mito. La Pavone in compenso ha cantato nella seconda serata del Morandi live show, altro successo di ascolti sopra il 25% e il muro dei cinque milioni di ascolti di nuovo superato. Rita Pavone è tornata grazie all’invito resurrezionale di un amico, come Buster Keaton grazie a Charlie Chaplin in “Luci della ribalta”, dopo anni di oblio, portandosi dietro il suo repertorio vitalissimo e la sua (ancora oggi) sorprendente voce da nera italiana.
Se faccio correre il ragionamento su questa falsariga di memoria è perché nello stesso giorno a Milano il sessantenne Peter Gabriel regalava un concerto mozzafiato resuscitando i successi di un album di un quarto di secolo fa, mentre Roger Waters questa estate aveva per l’ennesima volta riscoperto il 35enne di The wall e Steve Hackett riesumato con grande successo i Genesis della “Revelation”, quelli di mezzo secolo fa. Al cinema è partito con un sorprendente boom di incassi il (bellissimo, secondo me) film di Daniele Luchetti, omaggio agli anni settanta, “Anni felici” tra contestazione, femminismo, sgretolamento della famiglia tradizionale, contestazione dei dogmi, arte alternativa e spirito antisistema: «Io allora non lo sapevo – è la battuta di un io narrante che esprime il punto di vista autobiografico del regista – ma quelli erano anni felici». Ci deve essere dunque una ragione se su tutti i palchi trionfa il genere inattuale, la riscoperta, la nostalgia, il remake (persino quello della commedia nera del boom per eccellenza, “Il vedovo” di Dino Risi, dove Luciana Littizzetto calca le orme di Franca Valeri e Fabio De Luigi si confronta con Alberto Sordi), il ritorno a qualcosa che sembra perduto.
In scena c’è l’amarcord dei “sixties” o persino dei “settanta”, che qui in Italia, fra l’altro, sono gli anni di piombo, gli anni del grande lutto. Eppure, se i dinosauri settantenni continuano ad essere divi, e le star dell’ultima generazione si accendono e si spengono con la rapidità delle luci di un flipper, ci deve essere solo qualcosa di psicanalitico che lo può spiegare. Tutti i criticoni su Twitter hanno storto la bocca per il successo di Morandi, l’immagine del figlio quarantenne con i capelli brizzolati, che canta insieme al padre settantenne con il caschetto mogano, come paradosso di un confronto generazionale inedito ha colpito moltissimi, e anche me: ma io non ci colgo il senso della facilissima invettiva moralistica contro la manipolazione del corpo (nella civiltà cosmetica non ha alcun senso) quanto piuttosto la traduzione in iconografia di una sorta di complesso di Peter Pan che affligge gli ex baby boomers.
Morandi, la Pavone, la Carrà sono costretti a restare ragazzi dal loro repertorio, non dalla loro vanità, sono la reliquia di un tempo felice che l’Italia della crisi ha perduto, e che dunque il nostro paese ha bisogno di recuperare, come una madeleine, con il grande coro dei suoi eroi ibernati. Il figlio di Morandi può invecchiare, Morandi no: perché con i capelli bianchi, forse, non potrebbe invocare che la mamma mandi la sua ragazzetta Ye-Ye a comprare il latte, e nemmeno duettare con la Pavone chiedendo un martello rock.
La dose non modica di nostalgia che consumiamo come tossicodipendenti, ha bisogno di non virarsi mai di malinconia e di crepuscolo. Il sound degli anni sessanta non è la fotografia di un’Italia più ricca (quell’Italia infatti, malgrado i ricordi, era molto più ingiusta e povera di quella di oggi), ma piuttosto il ricordo di un paese che si sentiva giovane, al centro della storia, e proiettato nel futuro, al ritmo degli accordi che facevano ballare una intera generazione in tutto il mondo. Allora si doveva essere contemporanei, oggi non si può solo diventare inattuali. Per questo gli ex baby boomers hanno nel loro pubblico fans giovanissimi che quando i loro successo scalavano le classifiche non erano ancora nati: questa non è nostalgia del passato. Questo sentimento trasversale, interclassista e intergenerazionale è nostalgia del futuro.
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