Si scrive “riduzione cuneo fiscale”, ma si legge “Abracadabra”. Ossia la parola magica evocata da governi, istituzioni finanziare, associazioni imprenditoriali alle prese con l’alto costo del lavoro (e la bassa competitività delle aziende). Nella speranza che, a forza di spolverare la lampada di Aladino con la forza delle parole, salti fuori il Genio, per esaudire i desideri di lavoratori, delle famiglie e degli imprenditori.
Una narrazione senza soluzione di continuità, iniziata con Romano Prodi, nel 2006, che ne fece un cavallo di battaglia durante la sua corsa verso Palazzo Chigi. Fu lui, il paladino della moneta unica che rese ineludibile il dramma dell’alto costo del lavoro per via dell’impossibilità di svalutare la lira, a promettere nel talk-show di Porta a Porta:
«Nel primo anno di governo ridurremo il cuneo fiscale di 5 punti, senza alzare le tasse».
Allora il cuneo fiscale era il 46,2%. Quando andò a regime la sua riforma, la prima che cercò di affrontare in modo strutturale il costo del lavoro nella legge finanziaria con uno stanziamento annuale di 5 miliardi, cioè nel 2010, il cuneo fiscale era addirittura aumentato: 46,9 per cento. I risparmi inziali ottenuti dalle imprese non sono stati convertiti in investimenti e gli effetti per i lavoratori dipendenti, vessati dalle tasse, furono molto modesti, se non nulli. A dimostrazione che il cuneo fiscale, in Italia, non viene mai ridotto senza aumentare altre tasse sul lavoro.
Cuneo fiscale nella tabella riportata dalavoce.info su dati OCSE
Nella definizione della Treccani, il cuneo fiscale è «la differenza intercorrente tra l’onere del costo del lavoro sostenuto dall’impresa, comprensivo degli importi versati al fisco e agli enti di previdenza, e la retribuzione netta percepita dal lavoratore».
L’assedio al cuneo fiscale è stato un chiodo fisso anche di Luca Cordero di Montezemolo che, nelle vesti di presidente della Confindustria, lo pretese da Prodi. E una volta ottenuto, nel 2008, tornò alla carica e dichiarò insoddisfatto:
«La differenza fra il costo per le aziende e il salario netto è abissale: il rapporto è quasi di uno a due».
Quando Romano Prodi, un anno dopo il suo insediamento a Palazzo Chigi annunciò la lieta novella dell’imminente riduzione del cuneo fiscale, Tremonti reagì con la sua nota stizza: «Balle», disse. «Noi l’abbiamo già fatto, mentre Prodi ha messo l’Irap». Eppure, poi nel 2011, dopo essere stato quattro volte al dicastero dell’’Economia nei governi Berlusconi, lasciò in eredità un ulteriore aumento del costo del lavoro: 47,6 per cento.
L’alleggerimento del costo del lavoro è sempre stato, in teoria, al centro dell’agenda politica del Cavaliere. Nel 2008, programma elettorale del PdL proponeva la detassazione degli straordinari, dei premi di produzione, tredicesima e quattordicesima mensilità, ma fu molto prima – nel 2001 – che il Cav raggiunse la vetta dell’annuncio ad effetto sul miracolismo fiscale. Con la spiegazione in diretta televisiva del “Contratto con gli italiani”, pronunciò la formula magica: «L’Irap farà una brutta fine». Anche se poi, come fa notare il segretario della Cgia di Mestre, Giuseppe Bertolussi,
«Il problema non è tanto il cuneo fiscale, quanto la riforme complessive di cui le imprese necessitano per essere competitive. In Germania il cuneo fiscale è superiore al nostro, è del 49,8%, ma le imprese hanno comunque un livello di produttività maggiore.
Certo, il costo del lavoro deve essere ridotto perchè sulle aziende italiane pesa tutto il resto, a cominciare dall’oppressione della burocrazia, circa 31 miliardi di euro annui, ma purtroppo nella narrazione politica il cuneo fiscale ormai è diventato un parafulmine per non affrontare tutti i problemi della nostra economia».
Nell’ultimo decennio, ogni governo e ogni presidente di Confindustria ha promesso e/o ha chiesto la riduzione del cuneo fiscale, senza mai riuscirci. Quasi fosse un esercizio di ginnastica politica. E anche ogni agevolazione fiscale concessa alle aziende non è mai servita ad aumentare la produttività, anzi. E così con l’arrivo della crisi, si è capito che molti imprenditori non avevano usato gli sgravi fiscali per rendere le aziende più competitive, ma i loro rappresentanti di Confindustria hanno continuato ad accusare il governo di essere reponsabile delle loro disgrazie per via dell’alto costo del lavoro. Problema reale e serio, per carità, ma che non può essere utilizzato per nascondere le proprie negligenze e/o scaltrezze. «Non c’è mai stato un monitoraggio scientifico sull’uso virtuoso degli sgravi fiscali da parte delle aziende», fa notare a Linkiesta l’allievo di Marco Biagi, il giuslavorista Michele Tiraboschi.
Con il governo tecnico di Mario Monti, il miraggio del cuneo fiscale è tornato all’orizzonte. Nella sua manovra finanziaria Salva-Italia del 2011, Monti inserisce la riduzione del cuneo fiscale. Con un occhio di riguardo ai giovani, alle donne, al meridione. Ha dichiarato nel dicembre del 2011:
«Ogni azienda godrà di un sostanzioso incremento delle deduzioni per ogni lavoratore dipendente femminile e sotto i 35 anni di 10.600 euro, 15mila nel meridione».
E poi ha puntato anche alla detassazione dei salari di produttività.
Il premier Enrico Letta, che non sa dove prendere i soldi per l’Imu, invece di aspettare di verificare se – per caso – l’intervento del governo tecnico di Monti avrà effetti benefici per lavoratori e imprenditori, previsti per il 2014, che fa? Torna alla stesso cavallo di battaglia di Prodi. Rilancia sul cuneo fiscale, pur non avendo a disposizione le risorse per rendere la riforma efficace. Una volta superata la crisi politica e ottenuta la fiducia in Parlamento, il premier ha annunciato:
«La riduzione del cuneo sarà al centro dell’attività del mio governo».
Salvo poi incartarsi sulle cifre. Riduzione di un punto di percentuale? Uno e mezzo? Con quante risorse a disposizione? Due miliardi nel 2014 e poi? E giù, tutti a incalzarlo. Il presidente della Confindustria Giorgio Squinzi, che chiede 10 miliiardi perché il provvedimento sia davvero utile, mentre Renato Brunetta, ex ministro di un governo che mai ridusse il cuneo, alza la posta e ne chiede addirittura 17 per il triennio 2014-2016.
In attesa di vedere le carte sul tavolo della legge di stabilità del governo Letta, il cuneo fiscale, abracadabra, è sulle labbra di tutti. Una narrazione, che fa a pugni con i dati, visto che dal 2000 a oggi il cuneo fiscale, punto più punto meno, è sempre stato in crescita, con dieci punti superiori alla media europea (nel 2012, 47,6%). «Una narrazione pericolosa», ammette Gianpaolo Galli, già dirigente di Confindustria, oggi parlamentare del Pd. Consapevole del rischio di una riforma attuata sotto con una coperta molto corta. Perché pare evidente che ai politici e ai rappresentanti degli imprenditori – i primi si presentano sempre come riformatori, i secondi come patrioti – piace giocare con il cuneo fiscale degli altri.
Twitter: @GiudiciCristina