Era arrivato, in quei secondi anni Cinquanta, al punto più alto: Vittorio De Sica traeva un film dal suo libro “L’oro di Napoli” per farne un successo trionfale; L’Europeo pubblicava le sue critiche cinematografiche e il Corriere della Sera i suoi racconti per la terza pagina, regalando alla sua firma un seguito popolare enorme; la RAI-tv mandava in onda le sue commedie; i suoi libri vendevano copie a pacchi; perfino critici severi come Emilio Cecchi e Carlo Bo si convincevano della sua bravura di scrittore. Ipocondriaco cronico, sofferente di manie di persecuzione intellettuale e sottovalutazione, Giuseppe Marotta poteva dirsi un autore di successo. Ma nel giro di pochi anni, con la sua morte giusto mezzo secolo fa (10 ottobre 1963), il suo nome piombava nel quasi oblio. Marotta chi? Che stramaledizione.
In un circuito letterario affezionato all’idea dello scrittore a tutti i costi impegnato, meglio se munito di invito per salotti e cenacoli, un’impronta popolare come quella di Marotta era vista con discreta dose di rifiuto. Che volgarità, la letteratura media. Un giornalista, per di più nato nel terreno dell’umorismo, poco si addice alle lettere nobili; figurarsi poi un osservatore della gente comune, dipinta nella sua normalità mai troppo affluente, in brevi agili tratti vividi di colore e di umori. E poi è troppo poco italiana e troppo più vicina a certe grandi figure di romanzieri e raccontatori di oltre le alpi una figura come Marotta che azzannava con la sua penna torrenziale il lugubre fantasma della miseria, producendo dalla mattina una vertigine di parole fino alla sera, per ricominciare il giorno dopo la battaglia verbale del giorno prima.
Nella foto principale Marotta in piedi fra Loren e De Sica
“Bozzettista”, “acqua fresca”, “macchiettista”, erano il massimo delle gentilezze nel definirlo. Per non citare l’invettiva, rigorosamente post-mortem, vergata da un Gianni Brera prontamente immemore di aver debuttato diciassettenne nelle novelle con un racconto pubblicato su una rivista milanese proprio grazie all’interessamento di Marotta, che di quella rivista era caporedattore. Brera dirà che quegli era «un borghese piagnone e fasullo: ha irriso ai poveri, fingendo di capirli ed esaltarli»; il che sarebbe come accusare (sbagliando) il Grangiuàn di circonvenzione di Po. Ma poco importa.
Se certo popolo, piccolo e insieme vasto, trovò una rappresentazione autentica in Marotta fu perché del popolo, e anzi povero, lui lo fu davvero. E peggio che esser nati poveri lo è diventarlo da bambini dopo aver conosciuto il mondo in un discreto agio. Accadde che Marotta, che dal padre Giuseppe prese il nome e l’ardore del giornalismo, rimase orfano a nove anni: il genitore era un signorotto avellinese benestante, diviso tra l’avvocatura e le gazzette, colto e impegnato in società, donnaiolo e scialacquone, che aveva seminato figli e dilapidato le fortune. Marotta con la madre (sempre ricordata come la persona che amò di più) con i fratelli e sorelle si ritrovarono a vivere in un basso di Napoli, ignorati dal parentado. Marotta non poté studiare oltre le medie, se non la sera privatamente; a diciassette anni si impiegò come letturista nell’azienda del gas; a ventitré, nel 1925, andò via da Napoli verso Milano per inseguire il professionismo giornalistico e letterario; qui presto entrò nell’industria culturale dominata dai Mondadori, dai Rizzoli. Fece di tutto, conobbe in redazione l’amico-rivale di una vita, Cesare Zavattini, che lo aiutò nelle prime prove professionali.
Scrisse di tutto, su tutto. Si accorse di lui prima La Stampa, che lo volle elzevirista, poi per lo stesso ruolo Aldo Borelli direttore del Corriere della Sera, giornale mai più abbandonato. A Milano maturò il riscatto, e la città divenne la sua città, destinataria della riconoscenza, secondo nucleo d’ispirazione insieme alla Napoli del ricordo, della gioventù. La polarità metropolitana viene fuori sin dai titoli dei suoi libri, sospesi tra descrizioni popolari e autobiografismo: lo stracitato “L’oro di Napoli”, guizzante raccolta di racconti tra miserie e nobiltà partenopee, che divenne il celebre film desichiano che Marotta firmò in sceneggiatura con Zavattini. E poi i quadri-reportage contenuti in “San Gennaro non dice mai no” (dove le due città dialogano così alla distanza: “Spesso a Milano succede che il mare di Napoli mi stia davanti sul tavolo mentre rifletto e scrivo, o che addirittura io me lo accosti al volto come in una tazzina. Ha cessato di essere il gran mare dell’infinito dilatarsi; è diventato, per me che ne sono privo da tanto tempo, freschezza e luce nel cavo della mano, un cuore d’acqua, ma forse esagero, una miniatura o un tatuaggio”). E ancora “A Milano non fa freddo”, raccolta di racconti in cui brillano “Carlo e Teresa”, “spietata e affettuosa perlustrazione della piccola borghesia di un’epoca e di sempre”, secondo Goffredo Fofi, e ancora “Il più felice”, e “Porta Venezia”: è una Milano dove non fa freddo perché batte l’umanità e il sole dei caloriferi accompagna il riscatto del lavoro, nonostante al “profano settentrionalizzato” non sfugga il rigore degli inverni meneghini, quasi un personaggio fatale della Storia:
«Il freddo arriva a Milano dalle Alpi e passa sotto l’Arco della Pace come Napoleone; oppure viene dal Po radendo la via Emilia e la strada pavese: è vento, è corsa fino alle porte della città (Casalpusterlengo, Binasco, Busto Arsizio); poi si riassetta, si impettisce ed entra col passo di parata e con la grande uniforme.
Si annette Milano, la presidia.
Sta addossato ai muri la notte e l’indomani riprende i suoi lentissimi andirivieni di piantone, di sentinella, di sgherro».
E ancora da citare “Mal di Galleria”, in cui brillano quella specie di ballata beffarda e amara sulla malattia, “I testamenti”, e la magnifica descrizione del capitalista lombardo di “Luna e maree”. Da un suo libro, “Alunni del sole”, prese nome il celebre gruppo melodico guidato da Paolo Morelli, morto cinquant’anni dopo.
Febbrile, creativo, eternamente dolorante, umoristico, lo ricorda qui stupendamente Gaetano Afeltra, un altro campano devotamente milanesizzato e suo “padrino” in via Solferino: con il terrore della morte che lo accompagnava sempre, fino a spingerlo a portar con sé una busta nella tasca, indirizzata alla famiglia con le ultime sue care parole in caso di sciagura. Non era tranquillo neppure villeggiando al mare, voleva che qualcuno lo osservasse se si fosse mai sentito male: mitigava il tutto l’arrivo delle ammiratrici, per lui che era pur sempre un donnaiolo per via paterna, come qui Vittorio Paliotti rievoca.
Ma non si può parlare di Marotta senza ricordare il suo intenso rapporto col cinema, esercitato come sceneggiatore e soggettista in non molte occasioni, ma soprattutto come recensore cinematografico piuttosto battagliero. In realtà, il primo rapporto organico con la settima arte avvenne negli anni Quaranta quando è capo ufficio stampa della Germania Film. In pratica, si occupava del cinema del regime nazista. Erano i tempi dell’asse Roma-Berlino e non sfugga che in molte delle pubblicazioni cinematografiche fasciste scrivevano figure poi centrali della cinematografia italiana del dopoguerra come Giuseppe De Santis e Carlo Lizzani e Michelangelo Antonioni. Una parte di questa storia è ricostruita qui da Simone Starace. Per quanto concerne Marotta, per via di un articolo in cui s’augurava l’arrivo della “signora Libertà”, trovandosi a Milano e non nel liberato Sud, finì nel mirino della insediata Repubblica Sociale Italiana: prima fu radiato dall’Albo dei giornalisti, poi ricercato. Lasciò Milano per scappare, svendendo tutto, assicurando moglie e figli da dei parenti piemontesi: era di nuovo povero. Con la fine della guerra, riprese il lavoro pubblicistico di sempre, riavvicinando il cinema come recensore. Si era trasferito intanto a Roma per stare più vicino a Napoli dove poco dopo sarebbe infine approdato e dove poi sarebbe morto, senza mai però recidere il filo professionale e insieme sentimentale con l’amata Milano.
«Si racconta che, negli anni Cinquanta, ad ogni uscita settimanale de L’Europeo , il cinema italiano tremasse. Produttori e registi, dive e sceneggiatori, scorrevano col batticuore le ultime pagine della rivista dove già un titolo del “Marotta Ciak” poteva innalzarli sugli altari o ferirli a morte»: così annota il regista Gianni Amelio, curatore della raccolta di scritti marottiani “Al cinema non fa freddo” per la Avagliano editore, con una postfazione di Goffredo Fofi. La linea di Marotta era chiara: «Tranne l’ordine alfabetico, non rispetteremo niente e nessuno». E infatti sono rimaste leggendarie le sue stroncature, per esempio di Antonioni. Marotta recensore resta sempre un novelliere che giunge, insieme al film, a raccontare pure il dove e il come e il quando delle proiezioni cui assiste, non disdegnando di guardare e segnalare anche i film brutti, che gli forniscono il viatico per sapide escursioni nel costume e nella politica, feroce e bonario come di sua indole. “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti è il suo film del cuore: sarà per Milano, e per la storia di emigranti. Elogia sperticatamente l’Olmi meneghino del “Posto”, il Rosi di “Salvatore Giuliano”, e se oggi è scontato valutarli nella loro grandezza, meno lo era allora, quand’erano appena al loro secondo o terzo film, o perfino esordienti (come il De Seta con “Banditi ad Orgosolo”). Ammirazione sconfinata per “Una vita difficile” di Dino Risi. In un pezzo recita la sua formazione ideale del cinema italiano parlando di un certo ragazzo: «Con questo “I giorni contati”, Petri si affianca degnamente ai Germi, agli Olmi, ai De Seta, ai Rosi, ai Fellini. Ha trent’anni, Elio Petri, immaginate. Che fulgida stagione, per il cinema italiano; lo dico gloriandomene come se c’entrassi in qualche modo». Che fulgida stagione, vecchio Marotta; e che nostalgia.
Si ringraziano Paolo Speranza e le edizioni Mephite per le immagini.