Discussione non da curva sulla chiusura degli stadi

Tratto da l’Ultimo Uomo*

Quello che segue è un articolo scritto da Daniele Manusia, vicedirettore de L’Ultimo Uomo, frutto di una discussione fra lui, lo scrittore Fulvio Paglialunga, di Tim Small (giornalista, direttore de L’Ultimo Uomo), e il redattore di Studio Davide Coppo. Ne pubblichiamo un estratto: l’articolo completo è qui

DANIELE MANUSIA: Su Twitter seguo quasi solo gente che ha a che fare con il calcio e l’argomento del giorno di martedì 8 ottobre, la cosa rilevante, era la chiusura delle curve per discriminazione territoriale e la minaccia che tutte le curve si mettano volutamente a fare cori discriminatori per costringere la Lega all’assurdo di un’eventuale chiusura di tutte le curve. A me divertiva che non venisse presa in considerazione la possibilità opposta: smettere di discriminare, così ho scritto questo:

Invece andare allo stadio senza offendere nessuno per il posto in cui è nato/madri/padri/colore della pelle/religione/sessuale proprio no?

— Daniele Manusia (@DManusia) October 8, 2013

Dopodiché non so se con senso della responsabilità o semplice desiderio di avere ragione e dire l’ultima parola, ho passato il pomeriggio (e quello del giorno dopo, e del giorno dopo ancora) a fare pause per discutere della questione, su Twitter e Facebook. Il dibattito a un certo punto è diventato un uno contro uno tipo elezioni tra me e Fulvio Paglialunga (abbiamo pubblicato per lo stesso editore ma non ci siamo mai incontrati di persona) su Twitter; mentre su Facebook tra i vari commenti (tipo: «Se ti danno fastidio gli insulti non andare allo stadio ci sono cento anni di cultura», «Ma non ci andare te allo stadio io mi voglio vedere la partita e sostenere la mia squadra») si è inserito Davide Coppo che non condivide completamente la mia idea. Poi Fulvio mi ha chiesto se non pensavo sarebbe stato interessante scrivere qualcosa confrontando le nostre posizioni e l’idea è piaciuta a Tim Small con cui parlo di argomenti del genere un giorno sì uno no e abbiamo pensato di portare la discussione su l’Ultimo Uomo.

A me sembra interessante per due motivi: il primo è che di fondo siamo tutti d’accordo sul fatto che il razzismo e le altre forme di discriminazione siano sbagliate; il secondo è che nessuno di noi fa il legislatore ma al massimo siamo scrittori. Il che per quel che mi riguarda significa ragionare con la mia testa, senza mettermi per forza nei panni di chi per divertirsi allo stadio sente necessariamente il bisogno di insultare i tifosi avversari. Quindi per me difendere le curve adesso significa in sostanza difendere il diritto di alcune persone di andare allo stadio a guardare la partita/cantare/sostenere la propria squadra/insultare altre persone che però volendo possono rispondere a tono perché il diritto di insultare vale anche per loro. Per cominciare m’interessa capire di cosa si tratta veramente secondo loro (d’accordo con le proteste delle curve), cosa secondo loro si sta difendendo.

FULVIO PAGLIALUNGA: Difendo il diritto di tifare. E, dunque, anche di “tifare contro”. Fa parte della nostra tradizione, fa parte del campanilismo. Che è fuori dallo stadio ed è dentro. Anticipo l’obiezione di molti: il tifo contro esiste solo in Italia. E non è vero. Altrimenti i tifosi del Celtic non canterebbero, negli Old Firm, “Let’s make an huddle when Rangers die” girandosi di spalle al campo. Il tifo contro è insulto? Purché non sia pregiudizio, purché faccia parte del gioco. E gli ultras napoletani, con l’autoinsulto, e i tifosi interisti, con l’invito a tutti a farsi chiudere la curva, hanno fatto capire come nella loro cultura ci sia anche questo. Le discriminazioni sono un’altra cosa (io le combatto, allo stadio non le apprezzo, ma esiste un partito che è stato anche di governo che su questo ha costruito la sua “fortuna”), ma rendere tutto discriminazione e chiudere le curve a ogni soffio (persino quando il resto dello stadio non ha sentito, ma un oscuro funzionario dell’Ufficio Indagini sì) vuol dire rendere caricaturale un problema più serio. Dunque, correre il rischio che nulla appaia più serio, nemmeno il problema.

DANIELE MANUSIA: Capisco la questione del tifo contro, però non credo coincida con l’insulto. Ho amici romanisti/laziali che ne fanno una specie di arte, con prese in giro intelligenti, ironiche (certo, alla base c’è sempre l’infantilismo della presa in giro perché la “mia” squadra ha perso e la “tua” no). Anche sulla questione discriminazione non sono d’accordo. Le rivalità “campanilistiche” nascondono veri pregiudizi e vere offese discriminatorie. Non si tratta di definire la propria identità (che poi se si parla di identità regionali mi sembra una cosa criptofascista) ma di definire in negativo quella altrui.
Parliamo del problema culturale. Di cori insultanti ne ho sentiti molti, sinceramente non mi sembra stiamo parlando di vette della cultura popolare. “Milan, Milan, vaffanculo” è cultura? “O colerosi che non vi siete mai lavati” è cultura? Le eccezioni veramente divertenti sono poche. È così irrinunciabile questo aspetto del tifo? “Ci insultavamo anche negli anni ottanta, e anche nell’ottocento, e anche nel Medioevo” secondo me non è una ragione per cui si debba continuare. Però devo ammettere che non sono un tifoso vero, per come lo intendono i tifosi che si sentono veri. Per me la cosa più importante è la partita e al limite mi concentro nel sostenere la mia squadra, ricordo poco del calcio non-moderno. Di quel mondo per come lo immagino però mi possono mancare i tamburi e i fumogeni, ma non, che ne so, le risse e i furti in autogrill. Perché non si protesta per le cose belle? Perché le curve non dicono: “D’accordo, niente discriminazioni e chi sbaglia lo mettiamo fuori noi, ma ridateci i tamburi? Non introdurremo petardi o bombe pericolose ma solo fumogeni che non ostacoleranno la partita in corso?” A me non sembra stiano chiedendo questo.

Immagini a cura di Serena Pezzato

DAVIDE COPPO: Prima di affermare delle cose vorrei premetterne altre. La prima è che ieri ho bevuto moltissimo. Poi, prima di seguire il percorso della discussione, vorrei capire di cosa stiamo parlando esattamente. Stiamo parlando di discriminazione o di insulti? Il fatto che a qualcuno non piaccia sentire gli insulti non può essere un metro per far agire lo Stato, non vorrei stare in una discussione in cui ci si chiede se uno Stato può o non può decidere cosa determinate persone possano dire e in che modo. Nei limiti della legalità, della convenzione di Ginevra, della Costituzione. Ma “hai la mamma puttana” si può dire, grazie al cielo, e qualcuno si offenderà, ma pazienza. Quindi: parliamo di leggi che tendono a regolamentare l’espressione di determinati cori riguardanti discriminazioni varie o parliamo di insulti? Io parlerei della prima cosa.
Un’ultima cosa: il regime fascista schiacciò le identità regionali e cercò di strozzare le identità particolari e l’utilizzo dei dialetti, quindi trovo molto sbagliato e in qualche modo offensivo parlare di criptofascismo nei confronti dell’identità regionale.

FULVIO PAGLIALUNGA Se la mettiamo sulla cultura, non lo è nemmeno dire “arbitro cornuto”. Poi parliamo di curve, ma se le curve sono zitte o vuote dagli altri settori arriva di peggio. Il punto è: dov’è il confine? Per me all’interno dello stadio: vivo, per questioni di geopolitica del pallone, la rivalità con il Bari. Non ho avuto il tempo per tifare da adulto, in vita mia, essendomi trovato subito dall’altra parte della barricata. Ma alla “squadra” Bari e dunque ai suoi tifosi dall’altra parte un “vaffanculo” lo direi, durante la partita, per quello che la rivalità calcistica rappresenta. Altrimenti aboliamo anche l’antico “chi non salta è…”. Poi, però, ho straordinari amici a Bari e trovo anche Bari una splendida città. E c’è davvero qualcuno che cantando “Milano in fiamme” si augura davvero ‘sta roba? Piuttosto a me così come non piace l’idea che i giocatori debbano essere esempi di senso civico per chi guarda le partite, non piace nemmeno l’idea che punendo i tifosi si “educhi” una società. Perché fuori dagli stadi le discriminazioni (e dunque la definizione in negativo degli altri) sono anche più pesanti. Ma il concetto è sempre quello: affrontando il problema con metodi così grotteschi diventa una sfida, sembra la macchinazione di chi vuole il calcio in tv e dunque un motivo per far schierare gli ultras compatti contro un “sistema”. Se si vuol affrontare un problema, occorre capire la cultura (e dunque la mentalità) di chi va allo stadio. Come non è stato con la tessera del tifoso, come non è stato negli ultimi anni nella gestione dell’ordine pubblico. Poi, se vuoi, guardiamo i numeri: punire tutti per cinquanta cosa produce? Fa riflettere i cinquanta o passare dall’altra parte anche chi non c’entrava che si sente vittima di un’ingiustizia?

TIM SMALL: Ma chi non vuole il calcio in tv? Gli ultras? Non è un po’ anacronistico pensare che il calcio debba essere “degli ultras”? E se il calcio diventa un prodotto di consumo di massa, come sta facendo ormai da decenni, non andrebbe regolamentato come tutta la cultura di massa? Mi sembra una tensione ridicola, perché, da una parte, porta a un calcio regionale, regionalista, piccolo, sfigato, basato sulle “differenze campanilistiche” o altre stupidaggini di quartiere e territorialismi (e quindi la Lega, evviva la figa, omofobia, ecc.) mentre dall’altra parte si parla di cercare di chiudere accordi per 900 miliardi di euro con sindacati televisivi online globali e quindi di avere i soldi per portare gli arabi in Italia e quindi comprare Neymar e Falcao, ecc. Cioè un po’ mi sembra che noi siamo qui a parlare della differenza tra insultare un veronese e insultare un napoletano mentre non capiamo che il discorso più grosso è che allo stadio, oggi, gli ultras la UEFA non li vuole proprio.

DANIELE MANUSIA: Il fatto è così sembra che il tratto distintivo della cultura della curva siano gli insulti, il che certo non migliora l’immagine degli ultras. Non credo il problema sia “educare” degli adulti maleducati, quanto piuttosto chiederci che tipo di spettacolo vogliamo vedere ogni domenica. Anche io non sono d’accordo sulla chiusura di settori ma non arrivo a difendere chi effettivamente è razzista, discrimina, insulta. Per me quella è gente che rovina l’atmosfera della partita e che va tenuta fuori dagli stadi. E se fossi uno spettatore pagante di curva probabilmente contesterei la sanzione, ma contesterei anche e soprattutto chi infrange la regola.
Ma vorrei farvi notare due cose.
(1) I contenuti dei cori in questione sono extra-calcistici. Non si insulta una tifoseria, ma degli abitanti di una città/regione/quartiere/via/piazza. Escono di fatto dai limiti dello stadio e si basano su pregiudizi realmente esistenti e discriminazioni reali, anche se magari meno evidenti rispetto al passato (siamo sicuri? O forse il fatto che ci sia questo desiderio di offendersi vicendevolmente significa che sono ancora forti?).
(2) A mio avviso stiamo fraintendo il contesto. La questione è generalmente poggiata su: il calcio moderno ha rovinato l’atmosfera; ma secondo me dovrebbe esserlo su: in Italia si fatica ancora a passare il messaggio che i versi da scimmia allo stadio sono un atto razzista e che gli atti razzisti siano da reprimere anche allo stadio. Quando in Italia ci sarà uniformità di giudizio in tema razzismo allora forse, poi, magari, potremo prendere l’argomento alla leggera e tornare a farci gli sfottò, quando saremo consapevoli dei limiti da non passare e del rispetto di fondo necessario. Secondo voi si rischia di danneggiare il discorso principale del razzismo? Secondo me così si rischia di far rientrare dalla finestra il razzismo cacciato dalla porta. Quando difendete la libertà di insultare all’interno dello stadio vi siete chiesti chi state difendendo esattamente? Voglio dire, quelle stesse persone protestavano contro la chiusura delle curve anche quando si trattava di versi da scimmia, o no?

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