Giovani, imprenditori e agricoltori. «Vivere e lavorare in cascina è la cosa più bella del mondo. Mi sento davvero fortunata, soprattutto se penso che potrò consegnare ai miei figli tutto quello che ho costruito con le mie mani». «Non posso immaginarmi a fare un lavoro diverso da quello che sto facendo. Non è facile, è molto stressante, ma è davvero bello e gratificante». È il coro di chi ci ha provato, e ci è pure riuscito. Sì ma dove si comincia? «Beh, l’azienda è di famiglia. Ha cominciato mio nonno negli anni ’30». Il punto sta proprio qui.
Negli ultimi anni, soprattutto dal 2010, si è parlato di un ritorno dei giovani alle campagne. I dati diffusi dalla Confederazione italiana agricoltori (Cia) confermano questo trend. Dal 2010 al 2012 il settore primario è quello che ha creato più degli altri nuovi posti di lavoro, il 4,6% di dipendenti in più contro lo 0,4% dell’industria e l‘1,8% del terziario. Potrebbe diventare un vero e proprio ammortizzatore sociale in grado di accogliere molti disoccupati, lasciati a piedi dalla crisi. «Bisogna scommettere sull’ingresso dei giovani in agricoltura» diceva Luca Brunelli, presidente dell’Agia (Associazione giovani imprenditori agricoli) all’ultima assemblea annuale dell’Agia-Cia a Roma, «Si tratta di una scommessa vincente perché gli under 40 pensano in grande, sono preparati, creativi, hanno voglia di crescere e sperimentare, aprono le porte all’innovazione e all’internazionalizzazione».
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In Italia le aziende agricole sono circa1,6 milioni e di queste158mila sono “under 40”. Investire sui giovani dunque e ridurre il gap generazionale è quello che serve all’agricoltura italiana anche per Matteo Bartolini, che ha parlato il 4 ottobre al panel “Agricoltura Giovane: mi piace” in occasione dell’Agricoltura MIlano Festival. «Si deve lavorare su ricambio generazionale, altrimenti il rischio nel 2050 è di non avere più nessuno che si occupi del settore primario», dice Bartolini a Linkiesta. E i dati della Cia gli danno ragione. Le aziende agricole gestite da under 40 sono notevolmente più competitive rispetto alle over 40, nonostante il lento ricambio generazionale. Le imprese giovani sono più propense agli investimenti produttivi, alla multifunzionalità e all’innovazione tecnologica. Probabilmente questa tendenza è anche legata al fatto che le nuove leve dell’agricoltura italiana hanno un tasso di scolarizzazione alto: il 30% di loro ha una laurea in tasca e non necessariamente in Agraria. Ingegneria, economia, psicologia, veterinaria, anche lettere sono le facoltà più rappresentate nel panorama imprenditoriale agricolo.
La laurea però non basta. Molto meglio, oltre al pezzo di carta, averetra le mani l’azienda ben avviata dal padre o dal nonno. Perché se è vero il ritorno dei giovani alla campagna, è altrettanto vero che il 60% dei nuovi imprenditori tanto nuovi non sono: potrebbero essere definiti figli d’arte. Sono i nipoti o i figli di chi ha un’azienda avviata da parecchio tempo e che per una qualche ragione (per esempio l’incapacità di uscire da un’economia a scala locale) si trova in una situazione di crisi. In questo senso assumere un giovane, magari un figlio laureato in economia, può aiutare a far ripartire l’impresa. Ma cosa succede a quei giovani che vorrebbero cominciare una loro attività agricola come imprenditori e non da dipendenti? Semplicemente non ci riescono. Salvo alcune eccezioni. E la gran parte di chi ce la fa (otto persone su dieci) ha alle spalle una famiglia che riesce a coprire le spese iniziali, spesso davvero alte: l’acquisto della terra, i macchinari, la burocrazia di partenza (per far partire un’azienda agricola occorrono circa 23 chili di carta tra documenti e premessi).
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Lo dimostra la storia di Chiara Innocenti, che dirige con due amici l’azienda agricola Tunia in provincia di Arezzo. È riuscita a coprire l’investimento iniziale di un milione di euro grazie all’aiuto della famiglia. Chi non ha questa fortuna deve pensare più in piccolo, magari non 25 ettari di terreno, ma solo quattro, magari non 17mila bottiglie di vino prodotte all’anno, ma frutta e verdura di rivendere a chilometro zero. Come ha deciso di fare Davide P. trentunenne di Milano che per aprire la sua piccola azienda agricola ha dovuto mettere da parte anno dopo anno dal suo stipendio i 200mila euro di capitale. «È una scommessa sul futuro. Io non ho esperienza e non ho una famiglia di agricoltori alle spalle. Ci metto passione ed entusiasmo, questo sì. Ma per adesso non me la sento ancora di lasciare il mio lavoro a Milano». E gli sconti fiscali? Gli incentivi europei?«Io non ho visto ancora niente, comincio da solo poi vediamo».
In Italia un ettaro di terreno può costare fino a 18mila euro contro i 6.500 della Germania e i 5.500 della Francia. E l’affitto in zone particolarmente produttive risulta spesso proibitivo. È comprensibile che un “giovane” abbia qualche difficoltà a cominciare un’attività imprenditoriale. «L’assurdo – conferma Ferdinando Cornalba, proprietario dell’omonima azienda agricola nella campagna milanese – è che le banche ti concedono un prestito solo se dimostri di avere già un capitale alle spalle. Non è possibile». Sì perchè il tanto celebrato “ritorno alla campagna” nella maggior parte dei casi nasconde in realtà, solo un “riadattamento dell’azienda agricola di famiglia”.
Twitter: @mezanini
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