Gli Arcade Fire allo specchio

Il nuovo disco: Reflektor

Quando è venuto fuori il primo singolo, omonimo, di Reflektor (Arcade Fire – Reflektor) c’era da pensare che gli Arcade Fire fossero stati fulminati da Black Mirror, la serie tv. Credo che abbiamo sottovalutato la portata deflagrante delle sei puntate del piccolo show britannico che tanto ha fatto discutere – ma sembra aver esaurito la sua carica eversiva troppo velocemente – e non è stato sorprendente ritrovare lo “schermo nero”, anzi lo specchio, in quella canzone pazzesca. 

Le parole di Reflektor sono piuttosto trasparenti. Il fulcro sembra proprio essere (anche) la tecnologia, la connessione superficiale ed equivoca, la convivenza con il riflesso dell’altro. Nello specifico: la persona che riceve i nostri sms, o tweet, o status di Facebook; lo stesso che si confonde nella comunicazione uno-a-molti e dovrebbe somigliarci, invece vive (e muore) di elettricità e batterie.

Alcuni decenni fa si soleva parlare di “apocalittici o integrati”, una dicotomia succhiata fino alla feccia ormai, ma – ai tempi – ascoltando la traccia ariete di Reflektor non sarebbe stato difficile decidere su quale sponda del fiume piazzare gli Arcade Fire. Bastava abbinarla a pezzi del precedente The Suburbs come Modern Man o We Used To Wait che recitava: «Sembra strano che aspettassimo l’arrivo delle lettere» con inconfondibile languore. I fatti, però, avrebbero contraddetto subito la tesi: per fare un solo esempio tra i molti possibili, la band di Win Butler e Régine Chassagne ha realizzato piccole meraviglie pionieristiche come i video delle stesse Used To Wait e Reflektor. Quindi? 

Quando è arrivato il resto dell’album è stato chiaro fino a che punto il discorso sulla tecnologia fosse, in effetti, marginale. Basta ascoltarlo con attenzione per accorgersi che (grazie a Dio) non contiene un tema, ma una riflessione sull’illusione. L’illusione di vivere in un mondo diverso da quello in cui siamo cresciuti e, ancora, da quello in cui i nostri genitori e nonni e avoli sono cresciuti. In Reflektor non esiste la famigerata freccia di senso che percorre i brani dal primo all’ultimo ma forse esiste il germe di un’idea declinata su più livelli. 

Il primo è il più semplice, senz’altro il più “visibile”: quello musicale. Una specie di incarnazione della retromania di Simon Reynolds. Il produttore dell’album James Murphy che a sua volta – per poetica – rappresenta una tensione tra passato e futuro, ha funzionato da deus ex machina per un’operazione di recupero che traccia un cerchio attorno ai Talking Heads, David Bowie, Clash, Brian Eno. Tutti presenti con un candore che rasenta la citazione, tutti sminuzzati e rimasticati nella quantità strepitosa di nuovi album che confondono le acque del tempo. 

Il secondo livello passa per la copertina e si riverbera sul doppio brano It’s Never Over (Oh Orpheus) e Awful Sound (Oh Euridyce). Una volta ho sentito un bravissimo scrittore di nome Fabio Stassi parlare del mito di Orfeo. Lo riporto qui, senza aggiungere altro, perché mi sembra davvero calzante. Secondo lui Orfeo si volta perché sa che dalla morte non si torna, che il contratto con gli dèi è un’illusione. E quindi, piuttosto che cascare nel tranello, sconfigge i numi guardando Euridice per l’ultima volta possibile. 

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Il terzo livello passa per i testi e si sviluppa di pezzo in pezzo. L’illusione del progresso (Reflektor) sempre marchiata dalla superstizione (Flashbulb Eyes). Quella dell’evoluzione del costume (Joan of Arc). Quella, più subdola ancora, della normalità (Normal Person). Quella pura, dei sentimenti (You Already Know). Quella di una vita dopo la morte (Afterlife  e Supersymmetry) che riflette il mito di Orfeo ed Euridice e lo emana, come un prisma, su tutto l’album. 

In effetti, se esistono dei musicisti vocati alla sfaccettatura, alla comunicazione multilivello e anche alla gestione delle proprie contraddizioni interne sono gli Arcade Fire. Il loro carisma sostiene la complessità e maschera con l’emozione un pensiero granitico, che sembra preesistere alla loro discografia. La nostalgia del passato è il loro mestiere dai tempi di Funeral ma è difficile pensare a un gruppo altrettanto proiettato nel suo, e nel nostro, futuro. 

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