Tweet-giornalismoGuardare la luna: cosa conta davvero del caso Odifreddi

Sulla deriva del tweet-giornalismo

Ci sono varie ragioni per le quali, nei giorni scorsi, avrei voluto prendere una posizione riguardo al “caso Odifreddi”, che da una decina di giorni popola le pagine di questo e altri giornali. Prima avrei voluto schierarmi a difesa del matematico, ma è probabilmente solo un retaggio universitario, che mi riporta ai pomeriggi da studente di Scienze Naturali, quando la difesa della razionalità contro ogni logica – il gioco di parole è voluto, mettete via gli iPhone – sembrava l’unico modo per trascinare fuori l’umanità dallo stato di torpore cui era stata costretta dalle credenze religiose, da tutte le superstizioni e da tutto ciò che non veniva supportato da prove più che marmoree. La scienza, ecco cosa volevamo difendere, ecco cosa volevamo insegnare. Poi avrei voluto oppormi alla razionalità deviata, alla anti-religiosità devota che ogni tanto sembra animare più gli atei che i credenti, al pragmatismo disperato che porta un uomo di scienza a mettere apparentemente in discussione la storia moderna e chiama in causa – con enorme e calcolata platealità – proprio quell’unico argomento pruriginoso e discusso, tanto delicato da chiamarsi “catastrofe” senza bisogno di precisazioni. 

Alla fine mi sono detto: «che importa?» È una discussione sul niente, è la matematica contro la storia nel senso più ampio, e sappiamo benissimo tutti, noi che da qualche giorno ci scanniamo con passione sperando che qualcuno ne venga a capo per primo e ci spieghi dove stiamo sbagliando, che è una diatriba che esiste solo per essere discussa. È nata così – per volere o per destino – e non la possiamo mica cambiare. Sono probabilmente un paio verità velate mischiate a qualche stronzata evidente e nessuno ha la voce più grossa degli altri, ma tutti finiscono per borbottare da soli dopo aver agitato i pugni al vento. Non è la ragione a essere sul piatto, ma il metodo. 

Ho letto Quit the Doner, poi la risposta del mio amico Christian Raimo e i post dello stesso Odifreddi. Ho letto tutto e mi sono convinto, dopo il flusso di coscienza che mi ha portato a rifiutare l’utilità di sviluppare una posizione epistemologica in merito, che i fondamentali li hanno segnati Gianni Riotta e Mario Calabresi, soffiando sulla miccia accesa come mantici caricati a molla. Perché le cose ultimamente vanno così: ci vuole il coraggio di qualche migliaio di battute per esprimere un parere argomentato – al di là della giustizia o della veridicità delle argomentazioni – e ci vogliono 140 caratteri per trasformarlo  in un rimbalzare sconnesso e poco sensato, che neanche a rimpastarlo assieme costituirebbe qualcosa di probante, semplicemente perché manca della sostanza naturale della discussione. Odifreddi ha voluto toccare un tasto dolente per affermare ancora una volta la superiorità della ragione su ciò che secondo lui – come secondo me e molti miei compagni di studi fino qualche anno fa – sta minando il destino del genere umano. Ma lo ha fatto senza la convinzione che lo ha contraddistinto in passato, quando si trovava a impugnare verità a lui ben più congegnali. Magari su un palco, magari dal vivo. Riotta ha aperto le danze solo perché nessuna delle tweet-star che con lui condividono le teste di serie è stata abbastanza veloce. Ha fatto quello che sa fare, con presunzione e gusto, e ha sollevato il polverone orchestrando abilmente una serie di citazioni fuori contesto assieme a qualche sua convinzione pescata chissà dove in quello che ritiene essere il suo bagaglio culturale. 

Per quanto riguarda Calabresi, non voglio sembrare presuntuoso, ma penso che la sua colpa sia quella di essersi trovato a voler difendere alla cieca le posizioni del suo giornalista, e lo abbia fatto nella maniera più sbagliata possibile: cercando di riportare il dibattito su basi che si appoggiassero a un contesto ben più approfondito di quello gli dèi del web avevano stabilito. Perché la discussione potesse essere archiviata tra le numerose coltri di fumo leggero che popolano la rete. Quell’editoriale in inglese – a beneficio di chi? In difesa di cosa? – difficilmente gli verrà mai perdonato. 

Ora, si potrebbe supporre di trovarsi di fronte a una nuova forma di comunicazione, che col tempo sostituirà del tutto il giornalismo e soprattutto l’opinionismo tradizionale. Si potrebbe pensare di andare di pari passo con il nuovo corso, di assistere al cambiamento e di cavalcare i nuovi media. Si potrebbe anche essere tentati dal paragonare Riotta a Glenn Greenwald e Repubblica al New York Times, ma non né il caso né il momento. Che le cose stiano cambiando è vero e sacrosanto, e che oltreoceano ci sia chi sta segnando la via è comprovato. Proprio in questi giorni si sta facendo serrato il dibattito Keller/Greenwald sul futuro del giornalismo e si muove su un binario parallelo alle velleità di Riotta, Calabresi e compari. La notizia sta tornando ad essere opinione, senza però che possa mai venir meno un oggettività di fondo a fare da sigillo e garanzia nel Paese dove per una frase ambigua si può tranquillamente – ancora – salutare lo stipendio. Bill Keller, tanto per contestualizzare, è un ex editor del New York Times e ora editorialista per lo stesso giornale, Glenn Greenwald è un editorialista per l’edizione statunitense del Guardian, acceso critico del lavoro di Keller in passato e, in generale, scettico riguardo al futuro del primo quotidiano d’America. Sul piatto c’è  la direzione in cui si muoverà l’informazione nei prossimi anni, se rimarrà legata a una forma di giornalismo tradizionale o se, come sostiene Greenwald, si trasformerà profondamente, fino a confondersi, conferendo a tutto il panorama un’accezione positiva, con l’opinionismo da Social Network. Se da una parte quotidiani come il NYTimes hanno messo a segno colpi non da niente, scolpendo per i posteri la definizione di giornalismo d’inchiesta, e si stanno lentamente preparando alla virata, dall’altra la mancanza di soggettività – sempre per citare alla lettera Greenwald – ha generato «mostri in grado di castrare l’informazione e costringerla a uno stato di sterilità da cui non si può uscire se non cambiando completamente le carte in tavola». 

Le differenze tra il tono di questa conversazione e il nostrano “caso Odifreddi”, che per la verità fa da eco a tutta una serie di altri casi noti di dibattiti sul niente e che a niente hanno portato, stanno nelle premesse e si traducono in una generale carenza di credibilità nell’esecuzione –  la questione americana prendeva avvio dal caso NSA, tanto per dire. Gianni Riotta non può essere confuso con Glenn Greenwald semplicemente perché quando si imbarca in un dibattito – in pratica la sua principale attività giornaliera – lo fa senza avere la minima idea di dove la discussione lo porterà e la sua unica preoccupazione è quella di mantenere il botta e risposta strettamente legato al social che meglio padroneggia. È una gara a chi colpisce per ultimo e generalmente chi infila più tweet in serie vince, per sfinimento dell’avversario più che per ragione oggettiva – ma loro non lo sanno. Allo stesso tempo, le maggiori testate italiane non sono pronte per reggere il cambiamento. Anzi, per essere precisi, non hanno nemmeno idea del fatto che ci sia un cambiamento in atto. La prova di questa affermazione sta nella scombussolata e traballante difesa di Calabresi su La Stampa e nel fatto che Repubblica, che dava ospitalità alle primissime opinioni di Odifreddi, abbia apparentemente ignorato la faccenda di fondo, limitandosi a dedicare un’alzata di sopracciglia all’infelice esempio scelto del proprio blogger, mentre il NYTimes ha ospitato l’intero scambio “epistolare” tra Keller e Greenwald sulle proprie pagine – web, naturalmente – dimostrando di avere quantomeno riconosciuto la questione importante. Se non bastasse questo per dimostrare la sostanziale diversità di prospettive e la totale incongruenza di qualsiasi paragone possa venire in mente tra la situazione presente e quella in atto negli Stati Uniti, ci ha pensato Riotta stesso a metterci la firma con un tweet autocelebrativo che festeggiava le cento condivisioni di una sua affermazione in merito. Quale non è importante, come non è importante di cosa si stesse parlando, a conti fatti.  

Insomma, è questo che mi sento di condannare: la leggerezza di base che ha popolato la discussione dall’inizio. Le incomprensioni prevedibili, previste e cercate che chiunque abbia preso parte alla sassaiola via Social, dal lato della “vittima” come da quello della folla inferocita, ha lasciato correre o ha cavalcato con grande maestria in un moderno pararsi occhi e orecchie. Il modo in cui tutto può essere ridotto a un “parlare del nulla” in nome di quella voce sociale che tutti abbiamo guadagnato da quando siamo interconnessi, ma che sfocia sempre e comunque in un mero conteggio delle approvazioni dichiarate. La presunta, ma incredibile, ingenuità di un un professore, che non pensa nemmeno per un momento che non sia il caso di prendere certe posizioni – perché le ha prese, volente o nolente – nella stessa rete in grado di decidere del destino delle persone nello spazio di pochi click. Dove non esiste diritto di replica, perché tutti possono replicare e di conseguenza essere malamente zittiti, così come non esiste il diritto alla chiarezza perché nessuno si prenderà mai la briga di approfondire ciò che può facilmente essere spiegato con un meme

Di questo si dovrebbe discutere, del potere che ha l’opinione quando le opinioni di tutti sono dappertutto e si rischia di confondere un esercizio di auto-esaltazione con il revisionismo storico e il parere a ruota libera di un giornalista drogato di follower con un’opinione attendibile. Ho apprezzato lo sforzo di Quit e di Christian, così come ho trovato fuori luogo lo sforzo di Calabresi perché figlio di una scarsa conoscenza del mezzo, ma purtroppo bisognerebbe cercare di vedere la cosa come quella che è: una discussione fortunata, per numero di like

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