Il datagate e i giornalisti: giustificano la Nsa?

Il dibattito Keller-Greenwald

Giornali allineati a sinistra, “watchdog” del potere? Non tanto e non sempre, come testimoniano alcune recenti analisi, l’ultima delle quali riguarda il maggiore scandalo che ha visto coinvolta negli ultimi anni un’amministrazione americana: il Datagate. Una ricerca pubblicata sulla Columbia Journalism Review mostra, semmai, come in alcuni dei più grandi quotidiani americani – Il New York Times, Usa Today, il Los Angeles Times, e il Washington Post – la copertura giornalistica dello scandalo abbia sofferto finora di un pregiudizio favorevole al governo e alla National Security Agency, e non il contrario.  

Albert Wong e Valerie Belair-Gagnon, due membri del Progetto per la Società dell’Informazione della scuola di Legge di Yale, hanno analizzato la ricorrenza di alcune parole chiave, pro o contro la sorveglianza  in alcuni articoli pubblicati fra l’1 e il 31 luglio e contenenti riferimenti al Foreign Intelligence Surveillance Act (FISA) e alla Foreign Intelligence Surveillance Court (FISC). Scoprendo, con una certa sorpresa, che fra le trenta keyword prese in considerazione, quelle che ricorrevano con maggior frequenza erano quelle usate di solito in contesti volti a legittimare l’utilizzo della sorveglianza telematica. Parole come “sicurezza”, “protezione”, “terrorismo”, “mirata”. Mentre vocaboli come “indiscriminata”, “privacy”, “libertà”, “massiccia”, venivano adoperati in misura minore. La tendenza filo-governativa non era dichiarata apertamente ed era visibile soprattutto in Usa Today (nel quale la percentuale di termini pro-monitoraggio era del 36% superiore a quella opposta) e nel Los Angeles Times, mentre i due grandi quotidiani della costa Est ne erano affetti in misura minore. Tuttavia, il fatto di non essere esplicita, la rende secondo gli autori ancora più insidiosa: “un articolo apparentemente neutrale – scrivono – può lasciare un’impressione favorevole alla sorveglianza se contiene eccessivi riferimenti a termini come “terroristi stranieri” o “sicurezza nazionale”, che tendono a inquadrare il problema come una questione di patriottismo, di fare quel che è necessario per mantenere sicuro il Paese”.  

L’atteggiamento dei media contrasta, in questo caso, con l’atteggiamento prevalente fra la popolazione americana, che, secondo recenti sondaggi, vede con sfavore crescente il massiccio grado di monitoraggio a cui è sottoposta  e appare sempre meno disponibile ad accettare senza discussioni il baratto fra minore libertà e maggiore sicurezza che le viene proposto. Potrebbe dunque apparire strano che i media siano, per così dire, “più realisti del re”.

Ma non è la prima volta che accade. Sempre facendo riferimento a quanto accaduto negli ultimi mesi, un analogo divario si è registrato nel caso del dibattito relativo alla necessità di un intervento militare in Siria. In quel caso, uno studio del Pew Research Journalism Project aveva indicato chiaramente come la copertura giornalistica dei maggiori canali di news, da Msnbc a Cnn e Fox News, fosse sbilanciata a favore dell’intervento; e questo nonostante numerosi sondaggi segnalassaro che l’opinione pubblica era orientata in senso contrario.

I giornalisti non devono per forza assecondare gli umori prevalenti, si dirà. Ed è vero. È bizzarro però notare come questa linea pro-governativa sia distribuita in maniera pressoché uniforme presso tutte le maggiori testate.

Gli autori dello studio pubblicato dalla CJR azzardano una spiegazione: più di un decennio dopo, i giornalisti americani risentirebbero ancora dello spettro dell’attentato alle Torri Gemelle, quando schierarsi contro gli eccessi della cosidetta “guerra al terrore” poteva facilmente essere interpretato come un segno di scarso patriottismo  se non come un vero e proprio tradimento. La dottrina di Bush, secondo cui, “chi non è con me, è contro l’America” sarebbe ancora ben viva e vegeta sotto Obama.

Nel caso del Datagate, però, le cose probabilmente sono ancora più complicate. Come ha scritto il columnist del New York Times David Carr, la guerra ai leak ha messo “giornalista contro giornalista”  Conduttore televisivi e noti giornalisti della carta stampata come David Gregory, Jeffrey Tobin e Michael Grunwald si sono tutti schierati senza mezzi termini contro Edward Snowden, contro il fenomeno dei leak in generale e contro i giornalisti come Glenn Greenwald e Laura Poitras che hanno fatto uscire la storia.

Gelosia professionale, accentuata dal fatto che Snowden ha scelto per divulgare le informazioni due cani sciolti, non fidandosi di altri professionisti, considerati troppo “embedded”? Rifiuto di accettare che il mondo è cambiato e che i grandi scoop possono nascere anche al di fuori del circuito dei media consolidati? Senso di responsabilità, come sostengono alcuni dei giornalisti anti-leak, preoccupati, a loro dire delle possibili conseguenze sulla sicurezza nazionale di rivelazioni fatte in modo indiscriminato e senza filtro (che peraltro, ad oggi, non vi sono state)? Difficile dirlo.

Quello che è certo è che il “caso Snowden” ha diviso chi lavora nei media in campi opposti come non si vedeva da tempo, su storie di questa portata e può darsi che questo si rifletta anche sul modo con cui le grandi testate americane affrontano l’argomento. Forse le parole più chiare in merito le ha scritte il giornalista del New Yorker John Cassidy  in un articolo intitolato “Demonizing Edward Snowden: which side are you on?”: “Non è soltanto questione di difendere l’amministrazione Obama, anche se probabilmente c’entra un po’ questo. È qualcosa di più profondo, che ha a che vedere con l’atteggiamento verso l’autorità. Orgogliosi del loro lavoro e bravi in quello che fanno, i giornalisti di successo tendono a pensare a sé stessi come fieramente indipendenti. Ma allo stesso tempo, fanno parte di quell’establishment politico e mediatico che è sul banco degli imputati, accusato di aver ignorato, o di non aver saputo divulgare, un uso oltraggioso dell’intelligence che è andato avanti per anni”. Non sorprende, perciò, secondo questa ricostruzione, che alcuni di loro si sentano punti sul vivo, e reagiscano in maniera assai conservatrice. Dando man forte alla linea ufficiale dell’amministrazione Obama, e facendo orecchio da mercante alle preoccupazioni dell’opinione pubblica.

C’è infine un ultimo aspetto da considerare, e che potrebbe spiegare almeno in parte, la reticenza da parte di alcuni reporter ad assumere atteggiamenti critici nei confronti dell’amministrazione Usa: la paura. Come sottolineato da una recente lettera della Columbia Journalism School e del MIT Center for Civic Media, l’effetto di una sorveglianza capillare e di massa è quello di intimorire le fonti   che temono di essere spiate – e rendere più difficile il lavoro investigativo dei media.Ma ci può essere anche una qualche forma di timore da parte dei reporter, verso cui secondo molti commentatori l’amministrazione Obama sta mostrando un’aggressività senza precedenti. Alla fin fine, i giornalisti sono uomini come gli altri, con le loro qualità e le loro paure: e sapere che tutta la tua corrispondenza, le telefonate e ogni altra forma di comunicazione elettronica può essere almeno teoricamente monitorata, non aiuta certo a lavorare in tranquillità.

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