I media ne parlano da mesi ormai, ma la verità sul cosiddetto Datagate non l’abbiamo ancora scritta. E purtroppo non è una verità che deve emergere dalla cronaca dalle inchieste dai protagonisti di questa storia, ma è una verità che sta nascosta dentro di noi. A noi della privacy non ce ne frega nulla. Prendete le polemiche di queste ore: la Merkel è un po’ arrabbiata, i servizi segreti italiani – ma va? – dicono che non è niente di grave. Però la cosa più scioccante in questa storia siamo noi, quelli che sono rimasti indifferenti: la cosa più folle siamo noi che ci siamo già arresi al grande fratello come se fosse una catastrofe ineluttabile.
Non dovrebbe essere così, in passato non era così. Ricordo un famoso film di Tony Scott “Nemico pubblico”, che fece indignare il mondo, che fece sobbalzare stupore i cittadini di tutto il pianeta, che poneva la domanda: è possibile che ognuno di noi possa essere sorvegliato in ogni suo gesto? Eravamo diffidenti verso il potere che le tecnologie hanno dispiegato, ma siamo stati invece sedotti dal potere che il mercato ha di farci accettare le tecnologie più pervasive. Abbiamo costituito persino un’Authority per difendere la nostra privacy ma accettiamo compiacere l’idea che in cambio di una elemosina, ad esempio cinquanta SMS gratuiti un qualunque gestore possa acquisire il diritto di «geolocalizzarci», ovvero capire dove siamo, che cosa facciamo.
Abbiamo imparato con una certa maestria a venderci ai diversi operatori telefonici in cambio di un’offerta, prendiamo un dato sensibile e lo mettiamo su un social network, prendiamo le foto che amiamo di più e le mettiamo su una nuvola. Ma le chiavi di quella nuvola chi le ha? Chi può accederci? Se domani la nuvola che custodisce la nostra memoria evaporasse e interrompesse i suoi contatti con noi, dove finirebbero i nostri dati sensibili? È per questo che non c’è una protesta per il datagate. Non possiamo indignarci, certo: perché ci siamo arresi molto tempo fa.
Twitter: @LucaTelese