Tra la condizione itinerante di una compagnia e le fissità istituzionali che affollano il sistema teatrale italiano, c’è chi se la batte evitando scambi di favori smaccati. Giovani non perché faccia comodo servirsene per approvare cattive pratiche, ma che agli occhi dell’Europa, di fatto, non lo sono più così tanto e nel Belpaese contrattano produzioni, approvano progetti di residenza, sottoscrivono bandi, tengono workshop e si sottopongono a lunghe trafile di casting.
Lo scoglio è una burocrazia mastodontica che nel «fare rete» di molte associazioni culturali, imprese sociali o enti vincola a compromessi cui è a volte possibile sottrarsi inaugurando percorsi che accolgono linguaggi espressivi inediti, gruppi esordienti o tematiche di genere. Il motore è una comune esplorazione d’identità, per qualcuno fondata più sulla ricerca, per altri definita da una buona storia che sappia porre domande senza soluzioni precotte. Si legge, a proposito, nell’introduzione alla stagione 2013/2014 del Teatro Filodrammatici di Milano: «Un teatro che oggi si ponga il problema di non essere un evento “museale”, un rito trito e ritrito incapace di parlare al presente, ma un luogo che punti sempre a rinnovarsi attraverso nuove storie da raccontare e nuovi linguaggi». Sono parole di Tommaso Amadio e Bruno Fornasari, giovani direttori artistici che da qualche anno alternano al lavoro su palco, l’esigenza di far tornare i conti con idee, equilibri politici e budget, tra le mura di un teatro storico.
Qual è la vostra formazione e come siete arrivati a dirigere un’istituzione teatrale di pregio, a fronte di direttori presenti nei teatri stabili da molti anni? Vi considerate un’eccezione?
TA Mi sono diplomato come attore all’Accademia filodrammatici nel 1999. Poi ho seguito l’iter classico della tournée a fianco di grosse istituzioni e gruppi indipendenti, sempre con il desiderio di costruire qualcosa che mi coinvolgesse non semplicemente come attore, ma che incidesse in qualche modo sulla cultura.
BF Anch’io ho terminato l’Accademia nel 1999, eravamo compagni di corso. All’inizio ho lavorato come attore, ma mi orientavo già verso la regia. Ho avuto poi la fortuna di incontrare un grande maestro, Peter Clough, ex direttore della Guildhall School of Music and Drama di Londra e, dopo un’esperienza al Teatro Stabile di Brescia, sono stato scelto come regista sostituto del musical Fame, seguito da Gian Burrasca. Nel frattempo, Tommaso mi ha proposto di unire le forze per un stendere un progetto di co-direzione del Teatro Filodrammatici. E abbiamo vinto.
Come è si è svolto l’iter di approvazione?
TA Io ero socio della Cooperativa che gestiva precedentemente il teatro, ma negli anni si è verificato un logoramento dei rapporti con la proprietà. Precisiamo che non siamo un teatro stabile (ente pubblico autonomo), è una distinzione che va fatta e riguarda l’esigenza interna all’Accademia dei Filodrammatici di non fare del teatro un ente esterno e avulso, ma uno dei due ingranaggi complementari nell’unica struttura qual è oggi. Se poi è vero che si mantiene una certa indipendenza tra formazione (Accademia) e stagione (Teatro), la vocazione pedagogica è rimasta primaria. Abbiamo puntato su questa spinta dall’inizio del nostro progetto di direzione (2008) e ci siamo trovati a offrire una proposta che è stata valutata in quanto tale, accolta con la consapevolezza di investire su una nuova progettualità rischiosa, ovviamente nel rispetto di una serie di parametri entro il primo triennio. Mancavano una struttura organizzativa e amministrativa più solide, abbiamo quindi partecipato a un bando di Fondazione Cariplo, l’abbiamo vinto e a quel punto siamo partiti con il nuovo triennio. Ma siamo consapevoli che tutto questo non sarebbe stato possibile in un ente pubblico.
BF Sì, perché accedere a un percorso pubblico ha a che fare con canali di relazione politici, con una gerarchia informale, dove il fuoco non è mai l’interesse del progetto in sé, ma spesso un insieme di interessi coagulati attorno un progetto. Per un privato, invece, è essenziale sapere esattamente dove andranno a finire i suoi soldi e come verranno usati. In sintesi, quello che fa la differenza è che il privato chiede una coerenza tra le intenzioni e il risultato. I primi due anni, con le risorse bassissime che avevamo, abbiamo ospitato in prima nazionale due tra i massimi drammaturghi contemporanei: Juan Mayorga e Dennis Kelly. Altro aspetto fondamentale è che l’Accademia dei Filodrammatici è stata tra i fondatori di École des Écoles, network europeo di formazione d’eccellenza nelle arti performative.
Al centro della stagione 2013/2014 avete posto, accanto al problema dell’identità, il richiamo a tradizione e tradimenti. Come si traduce questo titolo-sfida nella vostra pratica quotidiana?
BF La prima idea era di trovare un titolo che segnalasse un’intenzione partendo dalla premessa per cui ogni avanguardia è il superamento di una tradizione. La tradizione è qualcosa che comunica l’importanza del teatro, il tradimento è la necessità da attuare sulla tradizione per continuare a renderla importante e viva. Dunque Tradizione e Tradimenti è prima di tutto un monito per noi.
TA E poi la nostra storia si lega a un teatro di regia, importante e valido sempre, dove però tutto continua dire che quello che fa la differenza sono le storie che racconti. Il rischio inverso è che ogni proposta diventi pericolosamente velleitaria, museale, appunto trita e ritrita.
Il recente decreto Bray “Valore Cultura” prevede tax credit per il cinema, provvedimenti per la musica, riforma delle fondazioni lirico-sinfoniche e possibilità per enti e teatri stabili di evitare tagli orizzontali alle spese. Cosa ne pensate e cosa resta ancora da fare, per esempio per i giovani professionisti teatrali e per “fare rete” sulle novità?
BF Credo che la nostra funzione sia quella di indicare un punto critico artistico e progettuale, più che manageriale. Senza entrare nei dettagli del decreto, ritengo che una priorità sia cominciare dalla qualità di un progetto per capire quanti soldi servono e non perseguire sempre il processo opposto. Dunque, dare precedenza ai contenuti e non al budget da allocare. Quello che poi si può fare per i giovani è non trattarli da sottoposti o ritenere che siano tutti capaci. Noi, per esempio, non facciamo audizioni, ma workshop con una preselezione che apre a giornate di lavoro con un gruppo di possibili candidati per i ruoli di una produzione. Alla base c’è un’assunzione di responsabilità reciproca: lavoriamo in un teatro che non ha grossi budget, ma ciò non esclude un’etica del lavoro dal punto di vista della valutazione delle risorse.
TA Qualche anno fa abbiamo incontrato le allora giovanissime direttrici del Gate Theatre di Londra, rispettivamente di 25 e 26 anni. Ora dirigono un altro teatro e, quando abbiamo esposto le nostre difficoltà, gli attacchi pesanti che abbiamo ricevuto, siamo stati visti come alieni: in Italia resistono direttori artistici per molti anni o gruppi ugualmente impenetrabili. Eppure credo che, se certe persone riescono a penetrare in un sistema, costituiscono un virus benefico per spostare una certa mentalità, che affida più valore al lavoro dietro a una scrivania che non a una progettualità su palco. Libertà quindi di proporre, ma anche libertà di decidere evitando di delegare allo strapotere di un intermediario la risoluzione di un’emergenza personale col rischio di allungare i tempi.
È già il secondo anno che il Teatro Filodrammatici ospita il festival teatrale “Illecite visioni” a tematica LGBT: unica esperienza di genere a Milano dopo Il garofano verde a Roma. Che importanza hanno i luoghi e le persone che fanno teatro in tempi di legge sull’omofobia?
TA Lo trovo avvilente, prendendo in prestito le parole di Mario Cervio Gualersi, direttore artistico di “Illecite visioni”, che oggi si sia ancora costretti a creare un festival dedicato a tematiche LGBT, mentre dovrebbe essere già parte integrante dei cartelloni. Il nostro orgoglio è politico, ma non con l’idea di dare vita a un altro ghetto o a un’altra lobby. Per questo, il primo problema che ci siamo posti riguardava proprio il rischio di raccogliere il consenso solo di una parte di pubblico sensibile. Considerato però il momento storico attuale, abbiamo optato per un segno piuttosto che non fare nulla. Ma la domanda rimane aperta e altra priorità del festival è la selezione degli spettacoli, la loro qualità. Se Illecite visioni esiste soltanto in quanto gesto politico, si cade nel teatro di denuncia valido per il semplice fatto che accusa. L’incitamento invece è all’onestà di capire se e come abbiamo posto delle domande, se uno spettacolo è stato efficace oppure no. “Illecite visioni” è un’occasione straordinaria nel momento in cui mira a evolversi in un progetto integrato e non esclusivo.
BF Anche perché, tematizzare un progetto come definizione di se stessi in contrasto a qualcos’altro, rende difficile sorvegliare le derive narcisistiche e il tentativo pur legittimo di difendersi.
Qual è la vostra opinione in merito ai due anni di occupazione del Teatro Valle, altra istituzione storica, e alla nascita della Fondazione Teatro Valle Bene Comune? Banditi o filantropi? La critica e l’opinione pubblica continuano a spalmarsi su queste due opposte fazioni.
TA Una premessa va fatta: bisogna trovarsi all’interno di un processo per poter davvero valutare quanto eventualmente sia miope chi sta agendo. Sulla base della mia esperienza ho la sensazione che un certo pensiero di sinistra confonda l’idea della scelta comune, dove nessuno si prende una responsabilità, con l’assunzione di un ruolo che dovrà essere vagliato e seguito eventualmente da un processo virtuoso. Viene da chiedersi perché certe strutture debbano rispettare regole rigide e altre abbiano un valore politico maggiore che le sospende da certi obblighi. Sei simbolo quando fai un gesto nella prospettiva di un percorso: se l’occupazione del Valle saprà strutturarsi, anche in termini di pubblico, vorrà dire che avrà vinto una sfida
BF Torniamo sempre alla responsabilità e ai parametri attraverso cui valutarla. La sensazione è che tutti gli ingranaggi abbiano bisogno di visibilità, ma serve tutelarsi e il costituirsi come Fondazione fornisce uno statuto per dichiarare la propria esistenza. Esistere cioè nel modo previsto dal sistema che si contesta, ma è un paradosso. Ne derivano a cascata problemi di contenuti e gestione: a quel punto il fuoco non è chi, ma la garanzia di progettualità non casuali.
Da ultimo, il proliferare di talent show che mirano a sfornare giovanissimi professionisti dello spettacolo ostacola e sminuisce, secondo voi, la formazione accademica? Che consiglio dareste a proposito?
BF Ogni volta che assistiamo a una forma di spettacolo l’effetto è l’immedesimazione, ma il punto è che non siamo bravi per forza. Il principio formativo che applichiamo in Accademia è che la scuola non eroga talenti, ma accompagna attraverso la scoperta di potenzialità da sviluppare e tradurre in mestiere. Chiunque entri in contatto con un pedagogo, dovrebbe pretendere l’analisi dei propri punti critici e non la celebrazione dell’ego. Ecco perché il talent show in sé non è negativo, ma sono negativi la cannibalizzazione e lo sfruttamento emozionale, pur essendo i core business del format.
TA Di conseguenza, le grandi scuole di formazione accusano una flessione, perché chi decide di mettersi in gioco dà la precedenza allo show. Significa che è sempre più diffusa la convinzione di non dover sviluppare degli strumenti. E ci ricolleghiamo al fatto che il teatro è percepito come museale: un altro spunto per interrogarci su chi andiamo a formare. Il teatro è un mercato piccolo, ma gli attori dovrebbero possedere anche una preparazione trasversale, cinematografica, radiofonica, musicale. La domanda sull’essere artisti deve dipendere da come si è in grado di veicolare il proprio linguaggio e il processo di lavoro pedagogico si basa sul tempo e sull’analisi degli esiti.
Twitter: @GiuliaValsecchi