Quando gli dicono statalista, Enrico Letta lancia fulmini e saette: “Statalista io? Il figlioccio di Nino Andreatta? Su questo non accetto lezioni da nessuno”. Per chi lo ha dimenticato o è troppo giovane per averlo visto all’opera, è bene ricordare che Beniamino Andreatta, economista keynesiano con tanto di specializzazione a Cambridge, già consigliere economico di Aldo Moro, è stato una delle teste più lucide della Dc variante progressista, l’uomo che ha cominciato a smantellare l’industria di stato e con essa l’architrave del sistema di potere democristiano. Fu lui a stipulare vent’anni fa, nel dicembre 1993, un accordo con il commissario europeo Karel van Miert che vincolava il governo italiano entro tre anni a portare i debiti dell’IRI a un livello “fisiologico” vendendo i gioielli di famiglia. Andreatta allora era ministro degli esteri, ma restava sempre lo stratega economico del governo guidato da Carlo Azeglio Ciampi che aveva appena lasciato la Banca d’Italia.
Dunque, Letta ha ragione, ma allora perché l’allievo sta sconfessando il maestro? Le Poste in Alitalia, Ansaldo energia girata al Fondo strategico della Cassa depositi e prestiti (in ballo c’è anche Avio spazio). E poi il caso Telecom con la minaccia di opporre agli spagnoli di Telefonica un bizzarro golden power, e cambio in corsa della legge sull’opa abbassando il tetto per il controllo della società oltre il quale scatta l’obbligo dell’offerta pubblica d’acquisto, fissato al 30% da Mario Draghi negli anni ’90. “Non facciamo protezionismo”, replica il ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni. Ma è già un diluvio di critiche dai liberisti puri e duri come l’avvocato ed editorialista Alessandro De Nicola, ai liberisti di sinistra come Francesco Giavazzi. Un appello con firme illustri è stato pubblicato dal Foglio “Contro la vampata statalista”. E proprio di una vampata si tratta, molto fumo e poco arrosto finora.
Qualcuno, a sinistra come a destra, dice che Letta, proprio perché era il cocco di Andreatta, dovrebbe far tesoro degli errori commessi con la furia privatizzatrice degli anni ’90. Si è venduto sotto l’assillo di tagliare lo stock del debito per entrare nell’euro con il primo cerchio dei beati. Troppo e troppo in fretta. Per privatizzare British Telecom Londra ha impiegato dieci anni, passando attraverso tre governi: ha cominciato Margaret Thatcher, l’ultima quota l’ha ceduta Tony Blair. In Italia non c’è stata strategia industriale. Si è fatto ricorso a imprenditori che si sono rivelati o dal braccino corto o rapaci o entrambe le cose insieme. La madre di tutte le privatizzazioni, quella di Telecom Italia, fu matrigna fin dall’inizio con il nocciolino duro al centro del quale c’era la Ifil di Umberto Agnelli con una quota dello 0,6%. E’ stato detto e scritto mille volte, ma non manca di ripeterlo l’autore di quella battuta, Massimo D’Alema che sul Sole 24 Ore divenne la scalata di Roberto Colaninno (fu un’opa quella) alla quale diede via libera proprio D’Alema quando era presidente del Consiglio. Anche questa è acqua passata, però continua a macinare la farina dei ricordi, dei rimorsi e talvolta dei ricatti.
Eppure, con tutte le giuste critiche (un’analisi spassionata non è stata ancora scritta da nessuno dei guru che ogni giorno propinano ricette sulle colonne dei giornali), una strategia allora c’era: non solo (s)vendere, ma far (ri)nascere una classe di imprenditori dalle ceneri dello stato pigliatutto e dalle macerie della prima repubblica. Non è andata. Gli imprenditori si sono rivelati deludenti. Capitani coraggiosi o patrioti, per lo più sono scappati con la cassa. In fondo l’unica riconversione riuscita è quella dei Benetton (anche se la gestione di Autostrade è soggetta a molte critiche). Ma non si può dire che non ci fosse un respiro lungo periodo. Ebbene, che cosa c’è oggi? Il governo Letta sta reagendo alle emergenze, oppure anche lui ha un modello magari al quale ispirarsi? Andreatta guardava chiaramente al modello thatcheriano, sia pur democristianamente temperato; e il suo allievo?
Un punto di riferimento possibile non è più la Gran Bretagna, ma semmai gli Stati Uniti dell’ultimo Bush, di Hank Paulson e Ben Bernanke, e del primo Obama, quello di Chrysler e General Motors. Cominciamo da Telecom Italia. Qui, nonostante la levata di scudi, gli strilli e gli strepiti, non è successo ancora niente. Telefonica ha acquistato la sua quota dalle banche le quali però non hanno lasciato del tutto la nave come topi in fuga. Chi non vuole la pubblicizzazione, poi le critica perché si sganciano. Ma debbono farlo. La Cassa depositi e prestiti che molti volevano far entrare nel capitale, ha resistito, perché non è questo il suo ruolo. Bene. Telecom va controllata e gestita da chi sa di telecomunicazioni e ha i quattrini da investire. Sarà Telefonica? Chissà, perché in giro si dice che la compagnia iberica sia nel mirino dell’americana At&T che ha già fatto delle cortesi avance. Vedremo.
Il governo ha sollevato un’eccezione per quel che riguarda la rete. Discutibile anch’essa, ma in qualche modo all’americana. Gli Stati Uniti pongono un freno alle acquisizioni straniere quando si tratta di settori strategici, cioè che hanno a che fare con la sicurezza nazionale. C’è anche un limite al controllo per quel che riguarda le compagnie aeree: uno straniero può comprare oltre il 50% delle azioni, ma i suoi diritti di voto, quindi i poteri di gestione non possono superare il 20%. E’ uno degli scogli nei quali s’è imbattuta la trattativa tra Usa e Ue su Open sky e se ne discute adesso nel mega negoziato sul libero scambio transatlantico. Un problema aperto quando si discute di partner e alleati nel mondo dell’aeronautica civile. E il tema si pone anche per Alitalia che ha problemi di piano industriale, ma ancor più di governance, come hanno fatto immediatamente presente i francesi. Dunque, anche in questo caso, bisogna entrare nel merito e non limitarsi a petizioni di principio. Quanto ad Ansaldo energia, che non è gran cosa, sembra una scelta clientelare dovuta ala spinta del sistema di potere genovese che mette insieme Pd, sindacati e arcivescovato. E serve ad alleggerire i debiti di Finmeccanica, ritenuta un campione nazionale da salvaguardare e concentrare nella coppia spazio-difesa.
Il governo italiano, in realtà, non ha ancora definito cosa considerare strategico. Nel frattempo cerca di aiutare le imprese ad uscire dalla crisi, preparando la loro transizione verso un assetto più solido e stabile. Niente di nuovo sotto il sole? Pubblicizzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti? Il rischio c’è, ma un esempio positivo viene dall’intervento nell’auto americana. Non è liberismo da manuale, però anche chi evocava lo spettro dei soviet a Detroit (tra essi chi scrive) deve riconsiderare le cose in un’ottica non ideologica.
Gli aiuti di stato si sono sprecati nel modo più plateale proprio nell’Unione europea che li vieta espressamente. Londra ha nazionalizzato banche importanti: Northern Rock, Lloyds Bank, Royal Bank of Scotland. Il Belgio e l’Olanda hanno fatto lo stesso. Berlino ha salvato la Commerzbank e le banche locali. Parigi ha sostenuto anche l’industria dell’auto (e adesso Peugeot è costretta a fare entrare i cinesi). Lo stesso ha fatto il governo tedesco con strumenti diversi, per esempio bloccando le norme europee sulle emissioni di gas di scarico osteggiata dai produttori di grandi vetture. Si dice la la BMW abbia pagato la Cdu, il partito della Merkel: Angela o le sfortune della virtù. Non parliamo dell’Irlanda che ha sostenuto le sue banche facendo fallire lo stato. O della Spagna che ha chiesto aiuto alla Ue (l’Italia non lo ha fatto, finora; i critici non dovrebbero mai dimenticarlo). Non risulta che tutto quel che è entrato nei tentacoli del Leviatano in Europa sia poi tornato al mercato. Questo è successo solo negli Stati Uniti dove i sostegni pubblici sono stati temporanei e il governo ha imposto che i quattrini venissero restituiti ai contribuenti (i quali in alcuni casi ci hanno anche guadagnato).
Nessuna ricetta facile funziona in questo mondo post crisi. Il 2008 ha sepolto l’innocenza mercatista pur sapendo che al mercato, come alla democrazia, non si conoscono alternative migliori. Tutti stanno cercando soluzioni pragmatiche a una trasformazione sulla quale, probabilmente, gli storici offrono chiavi di lettura migliori dei macroeconomisti. Non si capisce perché Letta non apra una discussione pubblica, nel Parlamento italiano e a Bruxelles dove spesso prevale l’ipocrisia degli zeloti. Soprattutto, dovrebbe darsi mezzi adeguati. Tutto questo mettere in campo ora la Cdp e le sue braccia operative, ora le Poste, ora le Ferrovie, se non direttamente il Tesoro, offre la fondata impressione di un agitarsi casuale. La garanzia che i quattrini dei contribuenti non vengano sprecati è proprio l’esistenza di strumenti ad hoc che muoiono una volta raggiunto lo scopo per il quale sono nati. Dunque, carte in tavola, se ci sono. Altrimenti meglio abbassare la cresta e, quando arrivano certi momenti brutti, anche la testa.
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