Kerry a Roma, alla ricerca di una soluzione in Siria

L’intervista allo storico James Gelvin

Il Segretario di Stato John Kerry ha avuto oggi a Roma una serie di colloqui con il premier Enrico Letta, il ministro degli Esteri Emma Bonino. Vedrà anche il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Nei colloqui bilaterali si è discusso dello scandalo Datagate, dell’instabilità in Libia (e del progetto di formazione per 270 unità delle forze di sicurezza libiche), del ritiro delle truppe Isaf dall’Afghanistan, previsto per il 2014, e del riavvicinamento tra Washington e Teheran. Ma al centro degli incontri c’è soprattutto la crisi siriana.

La visita di Kerry arriva infatti a poche ore dall’incontro di Londra degli «Amici della Siria», che riunisce i Paesi arabi e occidentali (vi ha preso parte anche l’Italia) che hanno sostenuto le opposizioni siriane. Non solo, fa seguito all’annuncio di Bashar al Assad che ha dichiarato, lo scorso martedì, di avere l’intenzione di ricandidarsi in occasione delle elezioni presidenziali del 2014. E così con la visita di Kerry a Roma, si intensificano le iniziative diplomatiche in vista della conferenza Ginevra 2, che avrà luogo il prossimo 23 novembre, ma una soluzione politica per la crisi siriana appare tutta da costruire. Per discutere del ruolo degli Stati Uniti, di distruzione delle armi chimiche e degli interessi israeliani in Siria abbiamo raggiunto al telefono a Los Angeles, James Gelvin, docente di storia del Medio oriente all’Università della California, autore di The Arab uprisings (Oxford, 2013).

Crede che Ginevra 2 possa avere esito positivo?
La conferenza rischia di non portare a nulla per l’assenza di un’opposizione unificata e di un suo portavoce attendibile. Uno dei temi che spacca gli insorti è se ci debba essere o meno un negoziato con il governo di Assad. La Coalizione nazionale siriana (Cn) è troppo vicina agli interessi occidentali per essere rappresentativa delle opposizioni. Anche coloro che tra le opposizioni cercano di dialogare con il governo rischiano di essere poco rappresentativi. Mentre la componente delle opposizioni che si sente al momento dei colloqui “vincente” potrebbe anche non partecipare a Ginevra 2, sperando in una soluzione militare della crisi.

Quale può essere il ruolo di Russia, Francia e Gran Bretagna in questo contesto?
Mosca ha offerto una difesa diplomatica al regime, per esempio impedendo la risoluzione del Consiglio di sicurezza che avrebbe spianato la strada ad un intervento esterno. Mentre, a questo punto Francia e Gran Bretagna (dopo il passaggio parlamentare a Londra) non hanno nessuna voglia di intervenire militarmente. Certo è che degradare le capacità militari del governo siriano rappresenta una vera e propria politica anti-umanitaria. A questo punto si arriverà al paradosso in base al quale se l’Occidente dovesse intervenire sarebbe per far proseguire il regime di Assad piuttosto che per rimuoverlo. 

Quali sono invece le intenzioni del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che oltre un mese fa aveva parlato di un possibile intervento?
La politica degli Stati Uniti è stata quella di incoraggiare lo svolgimento di Ginevra 2 per permettere a Usa e Russia, elementi del regime e Coalizione nazionale siriana di sedersi intorno al tavolo negoziale e discutere, escludendo i jihadisti. Quindi il tentativo di Obama è di allontanare l’opzione militare e di portare le parti insieme, inclusi Hezbollah e Iran. Fin qui gli Stati Uniti hanno chiuso gli occhi mentre sauditi e qatarini armavano gli insorti. Ora il popolo americano è fermamente contrario ad un intervento, basta ricordare le reazioni alle dichiarazioni di Obama su un possibile attacco. E così esistono in questo momento tre tendenze: i democratici e l’estrema destra, come il senatore del Kentucky Rand Paul, che si possono definire “isolazionisti”; poi ci sono gli interventisti-liberal: gli stessi che volevano attaccare Iraq e Libia; e i neo-con che pure sono per un rinnovato impegno (principalmente finanziario) nella regione poiché credono che il crollo economico del 2008 sia legato all’indebolimento della presenza degli Stati Uniti in Medio oriente. 

Eppure gli insorti appaiono estremamente frammentati…
In questo momento il conflitto è favorevole al governo. Mentre le opposizioni non possono fare altro che lavorare a livello locale. Esistono ben 13 fazioni islamiste. L’Esercito libero siriano (Els) combatte contro i jihadisti di al Nusra. Anche l’Els è diviso al suo interno e vorrebbe creare un fronte islamico che metterebbe in pratica ciò che sostiene il regime: la diffusione dell’estremismo sunnita. Per altro, questo atteggiamento permette al regime di continuare ad avere un’influenza significativa sulle minoranze. Ma anche al Nusra al suo interno è divisa tra chi è per uno stato islamico e chi vuole uno stato sul modello iracheno. In terzo luogo, i curdi sono divisi tra pro-iracheni e pro-turchi. E i secondi tra favorevoli e contrari al sostegno al Partito dei lavoratori curdi (Pkk).

Crede che il lavoro dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac), che ha appena ottenuto il premio Nobel per la pace, possa essere efficace?
Il governo centrale non ha il controllo dell’arsenale chimico. Gli osservatori servono ad assicurare che le armi chimiche non vadano nelle mani di Hezbollah e dei jihadisti. Questo sarebbe lo scenario peggiore. Ma è difficile essere ottimisti sulla possibilità che vengano distrutte. Nell’ipotesi in cui ci fossero armi chimiche nascoste in Siria, ci sarebbe un grave problema da risolvere per Israele. In un certo senso, è interesse di Israele che la guerra civile continui. Infatti, se una delle due parti dovesse prevalere, gli ispettori (dell’Opac, ndr) potrebbero parzialmente sequestrare le armi chimiche ma non le troverebbero tutte. E questo scenario potrebbe favorire un attacco israeliano in Siria.

E così si fa strada il tentativo di Obama di spingere per il riavvicinamento tra Usa e Iran?
Risanare lo scontro sciiti-sunniti è un viaggio lungo. Lo dimostrano le manifestazioni, organizzate dai suoi detrattori, che hanno accolto il presidente iraniano Rohani al ritorno dagli Stati Uniti. Inoltre, se anche il Congresso degli Stati Uniti dovesse dare il via libera ad Obama per modifiche alle sanzioni all’Iran, queste non potrebbero precedere la fine di ogni velleità di Teheran a proseguire nel programma nucleare. E così un riavvicinamento degli Stati Uniti con l’Iran presenta due ostacoli maggiori: l’Arabia saudita e Israele. Non solo, nasconde tensioni delle lobby straniere del petrolio e dei gruppi di pressione israeliani su Washington.

Twitter: @stradedellest 

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