Ieri, finalmente, dopo giorni di interrogativi terribili e di indagini al buio, la foto della bambina bionda che ha sconvolto l’Europa ha acquisito un significato anche per noi. È un significato terribile certo, ma almeno è un significato: una madre bulgara e poverissima – Sasha Ruseva – dice di essersi privata volontariamente di suo figlio perché non poteva sfamarlo. La notizia di una madre che fa questa confessione può essere persino peggio di quella di un bambino che è stato rubato: ma ci spaventa di meno.
È un dolore che ha due nomi noti, povertà e disperazione: rientra nella sfera di quello che è terribile, ma anche umanamente comprensibile. Se guardate quella foto, la foto di Anna, la bambina dai capelli biondi, ritrovata in un campo rom della Grecia, la bambina che ci ha fatto subito pensare a uno stereotipo, quello degli zingari che rubano i bambini, la bambina che ha acceso dentro di noi paure ancestrali e ha spinto le madri dei figli smarriti di tutta Europa a inviare foto e campioni di Dna nella speranza di ottenere una risposta, vi rendete conto che quella paura faceva esplodere l’angoscia di tutti noi: l’angoscia di chiunque abbia un figlio, un fratello, un nipotino. L’angoscia di un’intera società.
Pensate per un attimo questo: nella lingua italiana (ma non solo) esiste una parola per indicare che perde la moglie o il marito: la vedovanza. Ed esiste, ovviamente, una parola per indicare chi perde genitori, che ovviamente diventa orfano. Non abbiamo inventato ancora, invece, una parola per indicare chi perde i figli, perché la perdita dei figli è logicamente incomprensibile, biologicamente improbabile e psicologicamente distruttiva: per questo quella parola non può avere un nome. Per questo un finale tragico può avere un effetto catartico: dopo la confessione di questa madre non ci libera dal senso di sofferenza per l’ingiustizia che quella bambina ha vissuto. Ma ci salva dalla paura di non sapere, dall’angoscia di perdere i figli, e dal timore che i ladri di bambini siano vicini a noi.
Una paura che non ha ancora trovato un nome, ma che ha costruito un mito che ci accompagna fin dall’infanzia: quello dell’uomo nero. Siamo una società di adulti che nel tempo della crisi temono di non essere mai diventati grandi, viviamo l’angoscia della perdita, e spesso lo usiamo per nascondere il senso dell’inadeguatezza. Alla foto della bambina che tutti hanno visto, bisognerebbe rispondere con le foto di altri 250 bambini che sono negli archivi della polizia. Sono i bambini sottratti perché contesi: sono bambini di madri e padri che rubano il figlio all’altro coniuge e se ne vanno all’estero per acquisirne il controllo esclusivo. Qui l’uomo nero non c’è: qui l’uomo nero è dentro la famiglia.
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