La National Security Agency americana avrebbe avuto accesso nei mesi scorsi alle conversazioni di vari capi di Stato e di Governo, tra i quali il presidente francese François Holland e la Cancelliera Angela Merkel. Anche l’Italia figurerebbe nella lista. Il programma di spionaggio ormai noto come “datagate” sta incrinando le relazioni tra Europa e Stati Uniti, da oltre sessant’anni solidi alleati. Per capire se vi saranno ripercussioni sui rapporti transatlantici, e per comprendere meglio i motivi della sorveglianza a tappeto dei servizi di sicurezza americani, abbiamo parlato con Michael Brenner, professore emerito di Relazioni internazionali alla University of Pittsburgh e senior fellow al Center for Transatlantic Relations della Johns Hopkins University.
Professor Brenner, che idea si è fatto di questa storia?
L’elemento fondamentale è il fattore tecnologico: la capacità di raccogliere dati è aumentata enormemente per via degli ingenti investimenti che il governo americano ha fatto dopo l’11 settembre 2001. Il budget della National Security Agency (Nsa) si aggira tra i 40 e i 50 miliardi di dollari l’anno. Avendo quindi a disposizione la tecnologia, si finisce per usarla al massimo delle sue potenzialità, anche quando le imbarazzanti conseguenze sul piano diplomatico lo sconsiglierebbero.
Quali sono le responsabilità dell’amministrazione guidata dal presidente Barack Obama?
Quest’amministrazione è particolarmente debole nel dare direttive e nell’esercitare una supervisione efficace sui vari dipartimenti. La Casa Bianca lascia correre, e non solo per quanto riguarda l’intelligence. Il presidente Obama come manager non è un fenomeno, anzi è piuttosto incompetente. Se poi, come capita, i responsabili dei vari ministeri non sono dei talenti rari, vedi il capo del Nsa, il generale Keith Alexander, o il direttore della National intelligence, James Clapper, la frittata è servita. Questi personaggi sono arrivisti: entrano ed escono dalle amministrazioni a suon di quattrini. Sono i classici tizi che quando le aziende tecnologiche premono non si oppongono. Sono interessati solo ad accrescere il loro potere e lo fanno senza particolari scrupoli.
Qual è il vantaggio di tenere sotto sorveglianza tanti capi di Stato e di Governo?
L’apprensione, talvolta quasi l’ossessione, per la sicurezza, ha creato una giustificazione a 360 gradi per l’uso invasivo di queste tecniche di spionaggio, senza sagge considerazioni sulla loro reale utilità. Tanti Stati hanno avuto e hanno programmi di spionaggio più o meno sviluppati, ma la scala di quello americano, che tenta di frugare per esempio nella corrispondenza digitale non solo di politici di primo piano ma anche di semplici cittadini, è un fatto inedito.
Ma quali tipi di informazioni l’America intende carpire per esempio al presidente francese François Hollande o alla Cancelliera Merkel?
A mio parere non c’è alcuna specifica ragione. Il sistema è fuori controllo. Non c’è un vero vantaggio per gli Stati Uniti perché non siamo impegnati in negoziazioni particolari, non siamo all’epoca della guerra fredda. Un tempo sapere quello che passava per la testa di Leonid Brezhnev avrebbe avuto un qualche valore, ma sapere di che cosa chiacchiera al cellulare la signora Merkel non ci importa granché. Alcuni dicono che interessano le strategie e i segreti industriali. Forse questo potrebbe essere un motivo marginalmente valido, ma c’è il forte rischio di essere scoperti, come infatti è puntualmente avvenuto. Però se questo fosse l’obiettivo, anche in questo caso la strategia sembra confusa. Non ottieni quel tipo d’informazioni controllando il telefono della Merkel perché lei non parla di queste cose. Per cui siamo nel campo dell’avventurismo allo stato puro.
Prevede ripercussioni nei rapporti transatlantici?
Nel lungo termine no. Evidentemente questo è il momento delle dovute lamentele, dei cancan, degli inevitabili polveroni, ma ben presto l’Europa modererà i toni. A un’alleanza con gli Stati Uniti non sembra poter rinunciare, per esempio sotto il profilo della lotta al terrorismo internazionale, benché a mio avviso i rischi reali per l’Europa non siano così pronunciati come per gli Stati Uniti. E francamente, vista da Washington viene da chiedersi il perché di tanta riverenza, deferenza e passività europea. Negli ultimi dodici anni abbiamo commesso diversi errori, dall’Iraq all’uso massivo dei droni in Afghanistan passando per le giravolte sulla questione siriana. Nonostante ciò, l’Europa continua a riporre fiducia in noi. Forse è una questione di abitudine. Per oltre sessant’anni l’Europa è stata sotto l’ala protettiva degli Stati Uniti e ci ha seguito nonostante diversi errori marchiani. Ora sarà difficile rinunciare all’alleanza anche se si è scoperto qualche telefonino presidenziale sotto controllo.
Twitter: @damianobeltrami