«Sconvolto». È così che twittando ai propri follower, il produttore dei Radiohead Nigel Godrich ha descritto il proprio stato d’animo dopo la lettura del recentissimo rapporto della London School of Economics secondo cui l’ascolto a scrocco non influirebbe più di tanto sull’ammontare complessivo dei profitti delle major musicali. «L’industria del disco – ha aggiunto Godrich – è stata talmente decimata dalla pirateria che l’unico modo per sopravvivere, per gli artisti, è quello di ottenere visibilità a qualsiasi costo».
Già. Mentre in Italia l’Autorità Garante per le Comunicazioni (Agcom) torna alla carica con una nuova bozza di regolamento anti-pirateria, altrove ci si interroga su quale sia il reale impatto dei download illegali sull’economia del settore dell’audiovisivo. E lo studio della London School of Economics sembrerebbe contraddire in pieno le geremiadi dell’industria dell’audiovisivo che periodicamente accusa la pirateria di causare un crollo nei profitti e la perdita di centinaia, se non migliaia di posti di lavoro.
«Contrariamente ai proclami dell’industria – afferma Bart Cammaers, uno degli autori dello studio Lse – il settore musicale non è in fase di declino terminale, ma tiene ancora botta e mostra di essere in buona salute quanto a profitti Gli introiti derivanti dalle vendite digitali, dagli abbonamenti, dallo streaming e dai concerti compensano il declino negli incassi derivanti dalla vendita di Cd o di dischi». Secondo i ricercatori dell’Università i profitti complessivi del settore sono aumentati in maniera considerevole fra la fine degli anni ’90 e il 2004, per rimanere sostanzialmente stabili fino al 2009; quindi, calano leggermente all’apice della recessione, per poi tornare a salire dopo il 2010.
Lo studio “Copyright & Creation A Case for Promoting Inclusive Online Sharing” del prestigioso ateneo britannico accusa inoltre, pur senza dirlo chiaro e tondo, l’industria dell’audiovisivo di commissionare ricerche non affidabili, dato che «chi vi oppone ha poco o nessun accesso alle metodologie e agli assunti di base delle stesse». Servirebbero perciò analisi indipendenti.
È raro che degli accademici si sbilancino in questo modo; ma è forse anche un modo di pararsi le spalle, vista le prevedibile reazione infuriata delle major. Già lo scorso maggio, quando il Centro di Ricerca Congiunta della Commissione Europea pubblicò il rapporto “Digital Music Consumption on the Internet: Evidence from Clickstream Data” in cui si suggeriva in sostanza come il download illegale non andasse a intaccare gli acquisti legali, la risposta dell’Ifpi, l’associazione dei discografici, non si fece attendere. «Fallace, ingannevole e scollegato dalla realtà commerciale» furono le parole con cui la Ifpi bollò la ricerca, concentrandosi in particolare sul fatto che l’analisi usava i click e le visite a siti musicali legali e illegali come “indicatori” di potenziali vendite, mentre non considerava le transazioni vere e proprie, su cui non vi sono dati disponibili.
Un altro punto molto contestato, non da oggi, è la conclusione – accennata nel paper del Joint Research Center, ma contenuta anche in altri studi – secondo cui i pirati sono spesso anche i maggiori consumatori di musica legale. In altre parole, «chi più pirata più acquista». Una delle analisi più recenti (fra quelle indipendenti) è opera dell’American Assembly, un gruppo di lavoro della Columbia University dedicato ai temi del copyright nell’epoca digitale. La ricerca, denominata “Copy culture in the Usa and Germany” si basa su interviste a 2.303 adulti condotte nell’agosto del 2011, sia negli Usa che in Germania.
Gli autori hanno analizzato composizione e provenienza delle collezioni musicali di utenti dei due Paesi, scoprendo che gli utilizzatori di sistemi p2p negli Usa posseggono collezioni più ampie, di circa il 37 %, degli altri e che la differenza è causata non solo dallo scaricamento gratuito e dalle copie da parenti o amici ma anche da acquisti legali significativamente più numerosi, del 30 %, rispetto ai non utilizzatori di network peer to peer.
Un altro studio, del 2012, di Lse, “Why pay if it’s free?” argomenta, fra l’altro, che i contenuti acquistati llegalmente non costituiscono un problema per il consumo, dato che si concentra su prodotti che comunque non sarebbero stati acquistati in negozio, vuoi perché irreperibili o perché percepiti come a scarso valore aggiunto.
La Ifpi cita altri report, che avvalorano tesi opposte. Sembra il classico dialogo fra sordi. Su una cosa, però, sostenitori e oppositori di un irrigidimento delle misure a tutela del copyright sembrano concordare: la pirateria sta diminuendo. Non, o perlomeno, non soltanto, grazie a sanzioni e misure repressive, quanto a un cambio nelle abitudini dei navigatori, dovuto soprattutto all’accresciuta disponibilità di piattaforme di ascolto gratuito di musica in streaming. Spotify, su tutte. L’istituto di ricerca Ipsos MMI ha dato una sguardo alla situazione del mercato norvegese, scoprendo che in quattro anni, fra il 2008 e il 2012, la pirateria musicale è diminuita nel paese scandinavo ben dell’80%. Il 47% degli interpellati per il sondaggio ha dichiarato di usare Spotify e nella metà dei casi, di pagare per un account premium.
D’accordo, forse i norvegesi, celebri per l’onestà, non saranno forse il campione più adatto (a proposito, lo sapevate che noi italiani siamo al terzo posto nel mondo, dopo Usa e Brasile, fra gli scaricatori di contenuti illegali via Bit Torrent?). Ma anche altre analisi, come quella del gruppo Npd, specializzato in ricerche di mercato, arrivano alle stesse conclusioni. Un report pubblicato a febbraio racconta di un calo del 26% negli Usa nei download illegali nel corso del 2012, rispetto all’anno precedente.
Al contempo, aumenta il consumo di musica digitale acquistata in maniera legale: per quanto riguarda l’Italia, nel primo trimestre 2013 l’offerta è cresciuta complessivamente del 13% coprendo ora il 35% del mercato discografico. Negli Usa il sorpasso fra digitale e prodotto “fisico” (ossia maggiori introiti derivanti da streaming e downloads rispetto alla vendita di Cd e vinile), a favore del primo, è avvenuto già da un paio d’anni; nel Regno Unito dovrebbe avvenire nel 2013 dopo un parziale superamento già avvenuto nel 2012.
Questo vuol dire che “il digitale salverà l’industria”, come affermano molti commentatori – e qualche discografico? Non è così semplice. Di certo non salverà tutta quella parte di indotto costituita dai negozianti che vendevano (vendono) Cd e simili. Oltre a ciò, il modello di streaming “gratuito”, basato sulla pubblicità non convince tutti. Thom Yorke, storico frontman dei Radiohead (sempre loro), si è scagliato di recente contro Spotify e ha rimosso i propri ultimi lavori discografici dal servizio. Il motivo? Il modello di business, che lascerebbe agli artisti, soprattutto quelli emergenti, gli “spiccioli”, in cambio di una presunta visibilità. In gioco non ci sarebbero solo i soldi, ma l’arte. “Se la gente avesse iniziato ad utilizzare Spotify nel 1973 invece di comprare dischi – ha detto Yorke – dubito molto che Dark side of the moon dei Pink Floyd sarebbe stato realizzato. Sarebbe stato semplicemente troppo costoso”. Per qualcuno, le critiche di Yorke e Godrich sono polemiche riservate a chi ha abbastanza forza contrattuale per poterselo permettere. A tutti gli altri non resta che nuotare o affogare. E viene ricordata ai Radiohead la mossa promozionale del 2007 quando lasciarono i fan liberi di pagare quello che ritenessero giusto, per il loro album In Rainbows.
Allora, forse, i soldi non sono tutto. E dunque, qual è la ricetta per salvare le vendite dell’industria discografica, e gli artisti con esse? Forse bisognerebbe chiederlo ad Adele. La cantante britannicaha venduto, nel solo 2012, 8,3 milioni di copie dell’ultimo album, uscito un anno prima. La crisi non ha influito, con lei. Ah, vedi, forse, tutto sommato una ricetta c’è. Basta fare buona musica.
Twitter: @fede_guerrini