Pd, la sfida di Renzi tra matteolebani e carristi

Leopolda 2013 e nuova classe dirigente

Ora che è il vincitore annunciato, ora che non è più un infiltrato, un “fascistoide” (© l’Unità), un berluschino travestito da Democratico, ora che con lui non ci sono soltanto i sindaci e gli amministratori della prima Leopolda, ma sono arrivati anche duecento parlamentari, anche quelli che vedevano in Matteo Renzi il Male Assoluto.

Ora che la Leopolda s’è fatta istituzionale, che l’odiato establishment (o almeno un pezzo di esso) ha cambiato verso, mollando Pier Luigi Bersani alle sue birre, che le primarie della Madonna, quelle dell’8 dicembre, sembrano solo una fase di passaggio, intermedia, nel cammino politico di chi il segretario non aveva mai voluto farlo perché nel suo orizzonte c’è solo Palazzo Chigi.

Ora insomma che la Leopolda è arrivata alla quarta edizione e Renzi non può più sparare la pallottola dell’outsider, il sindaco di Firenze si trova in un momento cruciale del proprio cammino politico: la selezione della classe dirigente. Il sindaco ripete spesso che con lui andranno avanti i più bravi, non i più fedeli, eppure finora sembra aver ripetuto l’errore che lui stesso imputava ai suoi avversari, che hanno sempre preferito assistenti del leader poco propensi all’esercizio della critica.

Da una parte quindi c’è il “giglio magico”, c’è il clan, ci sono i matteolebani, quelli che sarebbero pronti a farsi esplodere per lui, la falange macedone che, appunto, risponde direttamente al re e così facendo evita la fine di chi in passato ha rivendicato autonomia, culturale e intellettuale (uno su tutti: Giuliano da Empoli, che da architetto del programma 2012, oggi è a Parigi, dove ha ripreso a scrivere libri).
Dall’altra ci sono i carristi, quelli che arrivano alla Leopolda per guadagnarsi uno strapuntino nell’empireo renziano, non sapendo che i primi a rischiare la rottamazione sono loro. I Dario Franceschini, i Nicola Latorre, le Marianne Madia. La sfida di Renzi sta qui; riuscire a non farsi inglobare, fagocitare, normalizzare, lui che è sempre stato un marziano, da chi è montato sul carro all’ultimo minuto.

Ma siccome in medio stat virtus e siccome a Renzi piacciono le terze vie blairiane, anche in questo caso il sindaco dovrebbe scegliere un’opzione diversa fra i matteolebani e i carristi. Che è quella di chi vede, in questo cimitero degli elefanti che è la politica italiana, la necessità di un sano – finanche cazzuto – scontro con la classe dirigente, che non è solo quella del Pd; è classe dirigente in senso diffuso, ed è quella dei giornali, delle banche, delle confindustrie, dei sindacati. Gli americani hanno un modo di dire che rende bene il concetto: “When in trouble, go big”, quando sei nei guai, falla grossa. Ma non si può farla grossa con l’idolatria e l’opportunismo.

La tonyblairizzazione di Renzi, che il sindaco cerca perché ha capito, anzitutto, che prima di prendersi il governo del Paese bisogna conquitare la guida del partito, passa anche dalla risoluzione del problema chiave della classe dirigente. Tony Blair era Tony Blair anche perché aveva Peter Mandelson, Alastair Campbell. Altrimenti il rischio è fare la fine di Fli, che quando è nata ha iniziato a raccattare in giro per l’Italia i rottami con cui comporre organigrammi e liste elettorali. 

Twitter: @davidallegranti

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