«Se siamo convinti che da tutti può nascere innovazione, perché non dare una chance a tutti? Ci siamo strutturati per dare una possibilità d’aiuto. Per capire dov’è il valore, cosa va bene e cosa no». Gian Andrea Fanella, 30 anni, è uno dei soci fondatori di Art Media Design, una società basata a Londra che assiste le startup sul piano organizzativo e finanziario. Fanella, da talent scout, cerca idee interessanti. Ma da sole le idee non bastano. Ci vogliono capitali, conoscenze e cultura d’impresa. A questo provvedono gli investitori informali come lui, meglio noti come business angels. Gli “angeli degli affari” che vegliano sui primi passi degli startupper, secondo l’enfatica definizione di origine teatrale (gli angeli finanziavano le messinscene a Broadway).
I business angel spesso sono o sono stati, a loro volta, degli startupper o degli impreditori. Oppure si tratta di manager, attivi o in pensione. Gente d’esperienza, che in genere investe di tasca propria, quindi molto meno dei fondi di venture capitalism. Nel mondo, la media varia dai 30 ai 500mila euro. In Italia, di solito, un singolo angel colloca tra i 30 e i 50mila euro: i super angel, da noi, sono pochi. In ogni caso, il vero patrimonio è nella capacità di gestione e nella rete di contatti del settore in cui operano. Gli angel puntano tutto su progetti innovativi e su chi li porta avanti: «Ci vogliono persone preparate, capaci di coinvolgere altre competenze», dice Tomaso Marzotto Caotorta, dirigente d’azienda di lungo corso e vicepresidente dell’Iban (Italian business angels network). Fondata nel 1999, è l’organizzazione di categoria, federata con i Business Angels Europe. Marzotto Caotorta definisce i suoi associati «l’anello mancante nella filiera del capitale di rischio»: scommettono in prima persona sulla crescita delle startup per renderle appetibili nei round di finanziamenti che verranno.
Non a caso, il comparto di queste operazioni economiche è chiamato “Early stage”, stadio iniziale. In Italia è ancora ridotto: vale “appena” 169 milioni di euro. Ma l’angel investing non ha risentito granché della crisi economica di questi anni. «Il rapporto che stabiliamo con le startup è basato sulla fiducia», precisa Marzotto Caotorta. «L’angel investe soldi suoi, ma non soffre per i rendimenti attesi, a differenza dei fondi». Mettere denaro non è un problema. Semmai le difficoltà si possono presentare quando si esce di scena, se ci vuole più tempo di quanto pianificato all’inizio. L’investimento informale è sempre un affare con scadenza: «L’angel entra in gioco se vede una possibilità d’uscita», ovvero una significativa plusvalenza. Da realizzare, in genere, tra i quattro e i sei anni di attività.
Anche per questo è importantissima la qualità delle startup: sui quasi 2mila progetti vagliati l’anno scorso in Italia, secondo un’indagine dell’Iban, si è investito soltanto su 94 (il 18% del totale), per oltre 33 milioni di euro. «Il 20-30 per cento produce un ritorno minimo o comunque molto limitato e solo il 10-20 per cento delle startup produce ritorni almeno dieci volte il capitale investito», spiega Marco Villa, vicepresidente di Italian Angel for Growth (Iag è un network privato, non associazione di categoria, come invece è l’Iban), nella sua rubrica sul CorriereInnovazione. Iag è il più grande insieme di angels in Italia, con oltre 100 soci. Il presidente Francesco Marini Clarelli, prima di radunare i colleghi, era stato finanziatore di Yoox, da anni il negozio online di moda e design numero uno al mondo. Gli Angel for Growth hanno risorse per 20 milioni di euro. Dal 2007, anno di fondazione, ne hanno investiti quasi 9, in piccola parte anche all’estero. In genere, visto l’alto grado di rischio, il consiglio per ogni socio è di non impegnare più del 20 per cento della propria disponibilità. Tra le storie di successo vantate dagli Iag c’è la bolognese Spreaker, “social web radio” nata nel 2010. Oggi conta due milioni di utenti registrati. La sede centrale è a Berlino, dopo un passaggio nella Silicon Valley. Prossima possibile tappa: New York, hub in ascesa per i digital media. Spreaker permette agli aspiranti dj di creare, se vogliono, un intero palinsesto online, da ascoltare live o in podcast. Investimento targato Angels for Growth: 515mila euro in due round.
Associati o solitari, gli investitori informali hanno storie e età differenti, e tra loro si possono trovare profili più classicamente aziendali come altri più avventurosi Da Iag nel 2009 è partita la seconda carriera di Matteo Cascinari, 48 anni, ex manager in grandi gruppi dei media come Sole 24 Ore e Disney. Cascinari ha puntato su Blomming, piattaforma di commercio online per produttori indipendenti. Per tutelare meglio la sua scelta, è diventato head of business della società. Una decisione più unica che rara: «Ma era il momento giusto. Avevo il tempo di farlo e mie competenze gestionali erano complementari a quelle del team fondatore. E poi ero sicuro che, dopo tanto tempo passato in ambiti poco propensi a essere innovati, mi sarei divertito come un matto». Cascinari si è così trovato nella doppia veste di chi mette il denaro (investitore) e di chi convince gli altri a metterlo (amministratore). E non gli pesa: «Blomming va bene e inizia a monetizzare. L’intero settore negli ultimi quattro anni è cresciuto velocemente. La qualità media delle startup è più alta, gli incubatori sono più strutturati, girano più soldi». Resta il fatto che numeri dell’“Early stage” italiano non sono ancora strabilianti. «Può apparire strano, in un Paese da 60 milioni di abitanti. Come può apparire strano che non ci siano associazioni grandi come Iag», sostiene Marco Villa. «Ma in Italia, quello informale è un genere d’investimento ancora poco conosciuto. In più, la situazione fiscale non aiuta».
Al di là delle cifre, l’attività che lega angels e startuppers è davvero, per tanti aspetti, una specie di convivenza. «Si lavora fino a tardi, condividiamo conoscenza, rischi e successi, quindi anche aspetti personali», dice Gian Andrea Fanella, che in Italia ha all’attivo il successo di Intoino, app per programmare le schede Arduino. Gli errori di percorso non lo spaventano: le startup, per definizione, agiscono in un ambiente di alta incertezza. «È lì che nasce l’innovazione. Facendo le cose in modo corretto non si impara niente! Il vero investimento è stimolare errori». Bisogna imparare a sorprendersi. La sua storia, come quella di tanti professionisti dell’innovazione, lo dimostra. Da ingegnere biomedico, specializzato in robotica e amante della ricerca scientifica, ha cambiato rotta iscrivendosi a un master Mba. «Sono stato un choosy, a modo mio», dice ricordando le parole dell’ex ministro del Lavoro Elsa Fornero. Contando sul network di conoscenze del master, con i nuovi compagni di studio ha messo su la società in cui lavora, dove segue le startup passando dal design del prodotto alla fase operativa (a cominciare dalla scelta della sede), fino al finanziamento. Prima impresa: una galleria d’arte a Miami, la Art Lexing, focalizzata sugli artisti cinesi emergenti (Lexing è il cognome della titolare, una collega di master cinese, conosciuta a Berlino). Aperta con costi bassi, ha presentato creativi che poi hanno esposto alla Tate o lavorato con Dior. Fiera dopo fiera, i conti tornavano, grazie agli alti margini di guadagno del mercato dell’arte. I ricavi della Art Lexing sono stati reinvestiti, insieme a quelli dei lavori successivi. «Abbiamo progettato la struttura della galleria con una visione da ricercatori. E quando ho cominciato a studiare per capire meglio cos’è una startup, ho capito ciò che stavo vivendo. Stavo validando delle ipotesi». Gian Andrea era tornato a essere l’ingegnere Fanella, anche da startupper. Del resto, l’econonomia è ancora definita una scienza, fin nelle sue forme più imprevedibili. Compresa quella angelicata.
Twitter @frank_riccardi