Ridurre il cuneo fiscale? Sì, ma non sprechiamo soldi

Ridurre il cuneo fiscale? Sì, ma non sprechiamo soldi

In questi giorni, leggendo le varie analisi riguardanti i tagli al costo del lavoro, sembra di avere un dejà vu che – come una macchina del tempo – ci riporta indietro di sette anni. È già tutto successo nel 2006 quando dopo tanta fatica si trovò finalmente il consenso tra le forze politiche per ridurre il costo del lavoro; ma poi l’occasione andò in gran parte perduta. Infatti, la riduzione del cuneo fiscale voluta dal governo Prodi non riuscì a produrre l’atteso aumento dell’occupazione. Fra l’altro, non solo i lavoratori non hanno visto gli effetti di questa politica in busta paga ma l’aiuto governativo non è neppure riuscito ad incentivare le imprese a investire e innovare. Simile a i postumi di una svalutazione valutaria che dà un vantaggio di competitività solo temporaneo, negli anni successivi la bilancia delle partite correnti è di nuovo peggiorata, e il costo del lavoro per unità di prodotto è di nuovo aumentato per effetto della bassa crescita della produttività.

L’obiettivo di ridurre il costo del lavoro è sacrosanto, anzi, bisognava arrivarci prima, ma fa bene Enrico Letta a ricordarci il film “Il Giorno della Marmotta”, perché anche oggi si rischia di ripetere la stessa scena in cui un paese sempre in emergenza fa le cose di fretta e male. Tuttavia, l’esperienza del Governo Prodi può esserci utile per non ricadere negli errori del passato visto che, oggi come allora, l’entità della riduzione del cuneo è limitata (è di soli 5 miliardi di euro. Sull’entità delle risorse c’è la certezza di vincoli stringenti, nonostante paradossalmente i vertici di Confindustria ne abbiano chiesti addirittura il doppio!)

I fattori di cui tenere conto sono tre: la platea dei beneficiari, la divisione dei benefici tra lavoratori e imprese e infine, fra tasse e contributi, quale parte del cuneo fiscale ridurre.

Il precedente del 2006 fallì sostanzialmente perché la riduzione fu spalmata su tutti i lavoratori e pochi euro di risparmi di costo per lavoratore non riuscì ad aumentare l’occupazione. La scelta obbligata sembra quindi quella di limitare lo sconto fiscale unicamente ai nuovi assunti a tempo indeterminato (a tempo pieno o part time). Aggiungiamo che dovrebbe essere limitato alle imprese che, rispetto al passato, aumentano l’occupazione, per evitare che le aziende prima licenzino e poi assumano con lo sconto.

Il secondo fattore, la divisione dei benefici tra lavoratori e imprese, dipende dalla contrattazione: bisogna contenere la crescita dei salari non dovuta ad aumenti di produttività e favorire la contrattazione decentrata. Nel 2006 i benefici del taglio del costo del lavoro dovevano essere distribuiti per il 40% ai lavoratori e per il 60% alle imprese, ma questo non accadde. Gli economisti dicono che l’incidenza nominale di una tassa – o di un taglio di una tassa – non corrisponde all’incidenza reale. Questo significa che al di là delle intenzioni del legislatore, l’effettiva distribuzione dei benefici dipende dalla contrattazione dei salari, ovvero dalla rispettiva forza contrattuale di sindacati e imprese nel gioco della distribuzione dei guadagni di produttività. Per la distribuzione dei guadagni di produttività è meglio che la contrattazione sia decentrata a livello di fabbrica e in questo il nuovo accordo e (sperabilmente) la nuova legge sulla rappresentanza sindacale dovrebbero giocare un ruolo decisivo.

Infine, il terzo punto è nevralgico per il welfare italiano. Il cuneo fiscale, ovvero la differenza tra il salario lordo e quello netto, è costituito dalla somma di tasse e contributi pensionistici e sociali: se da un lato è vero che l’Italia è oberata da 50 miliardi di cuneo fiscale superiori alla media europea, dall’altro lato siamo sicuri di poterci permettere il lusso di ridurre la parte destinata ai contributi pensionistici? Meno contributi oggi significa meno pensioni domani.

In Italia l’aliquota di contributi pensionistici, attualmente al 31%, potrebbe essere ridotta solo se il tasso di occupazione aumentasse, poiché (anche con il sistema contributivo) i contributi di oggi sono utilizzati per pagare le pensioni in essere. Questo è il tipico caso del cane che si morde la coda. Non potendo agire sui contributi pensionistici si deve agire sulle tasse: è necessario ridurre l’Irpef al primo scaglione. Per quanto riguarda la tassazione d’impresa è l’Irap la tassa da ridurre – con l’Ires siamo in linea con l’Europa – ma date le scarse risorse è meglio iniziare dall’Irpef, infatti, per come è strutturato il sistema fiscale italiano la riduzione dell’Irpef comporta un’automatica riduzione dell’imponibile Irap (l’Irap si paga sul costo lordo del lavoro). 

In conclusione, non basta mirare al bersaglio giusto del costo del lavoro: serve restringere la platea dei beneficiari ai soli nuovi assunti, curare la distribuzione dei benefici tra lavoro e profitti e compiere un’attenta analisi degli effetti fiscali e pensionistici dell’eliminazione del cuneo fiscale. Altrimenti, lo spreco di denaro pubblico del 2006 potrebbe ripetersi inesorabilmente.

Twitter: @marcoleonardi9 @bsevergnini

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