Si terrà il 23 novembre prossimo la tanto attesa conferenza di pace sulla Siria (Ginevra II). Lo ha annunciato il segretario della Lega araba Nabil al-Arabi in seguito ai colloqui, svoltisi al Cairo, con l’inviato speciale delle Nazioni unite per la Siria, Lakhdar Brahimi. Per valutare le possibilità di una soluzione pacifica della crisi siriana e i nuovi rapporti di forza in Medio oriente dopo il taglio degli aiuti militari degli Stati Uniti all’Egitto, raggiungiamo al telefono a Los Angeles, il professor Roger Owen, docente di Storia del Medio oriente all’Università di Harvard. Lo studioso britannico è autore di due classici sulla storia della regione: State, Power and Politics in the Making of the Modern Middle East e A History of the Middle East Economies in the 20th Century.
Siria
È stato conferito all’Opac il premio Nobel per la pace. L’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche ha favorito una soluzione pacifica della guerra civile siriana?
La Siria e Israele hanno armi chimiche non per usarle ma come forma di deterrenza. Chiedendo ad Assad di distruggerle, la comunità internazionale fa un favore a Israele. Non perché Gerusalemme teme che Assad potrebbe usarle, ma perché gli israeliani non vogliono che Hezbollah abbia armi chimiche.
A questo punto ci sono maggiori possibilità per una soluzione politica della crisi?
Certo la strada per Ginevra II è più vicina. Ma non è chiaro cosa vogliono gli Stati uniti. Obama ha intenzione di lasciare alle sue spalle un ricordo di “fautore della pace” internazionale. Quando ha parlato di attacco imminente ha perso i nervi. Avrebbe voluto attaccare la Siria senza dichiarare guerra, come spesso gli ha consigliato Henry Kissinger. Ma ora è chiaro anche a lui che questa strada non è percorribile.
Sul campo sembra che si sia passati ad uno scontro tra ribelli. È così?
Di certo Gran Bretagna e Francia possono guardare al conflitto senza interferire per vedere a che punto arriva lo scontro. In questo momento è difficile dare armi ai “ribelli giusti”. Londra vuole continuare a rifornire di armi gli insorti attraverso le forze speciali presenti in Giordania. Ma è l’Arabia saudita che fin qui ha raccolto le armi distribuendole ai ribelli sunniti. Questo è molto pericoloso.
E poi il conflitto ha coinvolto sempre più il Libano e i curdi iracheni.
In Libano, l’élite politica sa bene quale pericolo correrebbe l’indipendenza del Paese se la situazione in Siria andasse fuori controllo. I curdi invece sono ben organizzati nel Nord del Paese e sanno che le periferie hanno accesso a una quantità sempre minore di risorse in un contesto di drammatica inflazione e mancanza di cibo.
Egitto
Gli Stati Uniti hanno deciso di sospendere gli aiuti militari all’Egitto, pari a 1,3 miliardi di dollari (dopo un taglio approvato lo scorso agosto in seguito al colpo di stato militare pari a 200 milioni). Dopo la mancata consegna di F-16, gli Stati Uniti stanno per fermare la consegna di elicotteri Apache, missili Harpoon e carri armati. Washington pensa anche di fermare il trasferimento di 260 milioni di dollari e 300 milioni in garanzie per prestiti. Secondo il dipartimento di Stato si tratta però di un avvertimento più che di una decisione di lungo termine. Non solo continuerà ad essere assicurata l’assistenza sanitaria ed educativa oltre agli aiuti alla sicurezza per affrontare la grave assenza di sicurezza nella penisola del Sinai.
Crede che il provvedimento annunciato ieri dagli Stati Uniti rappresenti una decisione permanente?
Non è un provvedimento che sarà mantenuto in vigore per due ragioni precise. La prima è che gli Stati Uniti assicurano lo stesso ammontare di aiuti (1,5 miliardi di dollari) ad Israele. E un taglio all’Egitto potrebbe causare squilibri nel lungo termine. In secondo luogo, quattro senatori democratici fanno affari con industrie militari egiziane. D’altra parte, gli aiuti americani non servono all’Egitto perché non sanno neppure usare le forniture militari che vengono da Washington. Tuttavia, gli Stati Uniti temono ogni possibile ripercussione sui privilegi accordati alla marina Usa nel Canale di Suez. Per questo, se lo scopo è di influire sulle decisioni del capo delle Forze armate Abdel Fattah Sisi, Obama deve trovare altre vie.
Anche senza i finanziamenti degli Stati Uniti l’Egitto diventa sempre più un regime autoritario?
Chi dà finanziamenti può esercitare anche un certo controllo. È quello che in questa fase fa l’Arabia saudita. Ma anche quei finanziamenti non sono utili né ben spesi dal governo egiziano che non è trasparente né controllabile. E questo lo sa benissimo il premier Hezam Beblawi che guida un governo disfunzionale in un contesto di grave crisi economica.
E tutto questo avviene con il sostegno dei liberali?
I movimenti liberali hanno vissuto un momento di isteria credendo reale l’inizio di una sorta di dittatura religiosa con i Fratelli musulmani al potere. Tuttavia, non hanno assunto una posizione coerente per mancanza di base elettorale. I liberali egiziani non hanno connessioni con la società civile. Per esempio in Tunisia, i sindacati sono parte essenziale del movimento islamista che sostiene Rashid Ghannushi. In Egitto, invece, i laici stanno facendo quadrato intorno al ministro della difesa Abdel Fattah Sisi che è in procinto di creare un vero partito, sulle ceneri del dissolto Partito nazionale democratico dell’ex presidente Hosni Mubarak.
Lo scontro tra esercito e Fratelli musulmani sembra ora insanabile?
Da decenni esercito e Fratellanza si combattono: è una vecchia vendetta. Ora però i militari sono vicini ad una «linea rossa»: smantellare i servizi sociali forniti dai Fratelli musulmani. Ecco, se fanno questo, lo scontro diventa molto serio. Così come il presidente della Repubblica tunisina Moncef Marzuki è preoccupato per i jihadisti che combattono nel deserto, l’esercito sa che ha aperto un fronte nel Sinai, che prepara la strada ad una nuova ondata di terrorismo. Per questo Catherine Ashton (Alto rappresentante della politica estera dell’Unione europea, ndr) ha chiesto a Sisi di avviare colloqui con il deposto presidente Morsi. Sarà chiaro solo con l’approssimarsi delle elezioni se i partiti religiosi potranno partecipare oppure i Fratelli sapranno accontentarsi di candidati indipendenti.
L’esercito sta tentando di separare la Fratellanza dall’islam sunnita, rappresentato da Al Azhar?
La moschea di Al Azhar è stata cooptata per lungo tempo all’interno del regime di Mubarak. Il problema egiziano sono i copti. I tunisini non hanno la stessa questione irrisolta. Gli egiziani devono tornare al nazionalismo arabo e egiziano per la pacifica convivenza di copti e musulmani, ma i Fratelli musulmani non possono essere estranei a questo processo, questo è pericoloso.
Iran
Gli Stati Uniti stanno tentando un riavvicinamento con Teheran, questo potrebbe significare la fine della divisione tra sunniti e sciiti?
Ci sono ragioni precise che hanno portato a questo. Gli iraniani sperano in un alleggerimento delle sanzioni. Gli americani temono il coinvolgimento di Hezbollah in Siria. Credo che il premier iracheno Nuri al Maliki e il presidente siriano Bashar al Assad siano irritati da questo passo. Invece, la divisione tra sunniti e sciiti hanno fatto fin qui solo il gioco dell’Arabia saudita che ha saputo costruire questa coalizione anti-Iran per favorire i suoi clienti sunniti nel Golfo.
Questo riavvicinamento favorirà la soluzione della questione nucleare o è solo un cambiamento di facciata?
Secondo il Trattato sulle armi nucleari l’Iran può dotarsi di un programma nucleare per uso civile, ma non può controllare reattori e costruire una bomba (sono cose ben diverse). Quindi l’Iran può proseguire nell’arricchimento dell’uranio senza ottenere mai un potere deterrente. Credo che si tratti di una scelta ben ponderata per entrambe le parti. Gli ayatollah sono stati disturbati dall’approccio oltranzista di Ahmadinejad che ha messo a rischio la tenuta della Repubblica islamica, con Rohani tentano di far crescere di nuovo la popolarità della rivoluzione e del clero.
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