Soldi alle imprese, garanzia europea per le banche

Svolta al prossimo Consiglio europeo

Utilizzare i fondi strutturali europei per garantire le erogazioni delle banche alle piccole e medie imprese dell’Eurozona. È una delle proposte sul tavolo del prossimo Consiglio europeo, convocato per il 24-25 ottobre, nel quale si darà disco verde alla Sme Initiative, ovvero il pacchetto di misure a sostegno dell’economia reale. Una proposta che ha ricevuto una spinta decisiva da parte del vicepresidente della Bei, Dario Scannapieco, sulla base del progetto di cartolarizzazione proposto dal think tank a trazione italiana Action Institute. Infatti tanto la Banca europea per gli investimenti, quanto il Fondo europeo d’investimento (60% Bei 30% Ue), che gravita nella sua orbita, sono i soggetti deputati a gestire operativamente le risorse comunitarie destinate alla Sme Initiative a partire da gennaio prossimo.

L’idea è quella di creare un mercato paneuropeo delle cartolarizzazioni (emissioni di strumenti finanziari originati da società veicolo e composti da portafogli di crediti che generano flussi di cassa pluriennali, ndr) controgarantite da un pool di fondi (ESIF – i fondi strutturali – COSME, Orizzonte 2020, FEI, BEI, banche nazionali di sviluppo e promozione). Si tratta di uno dei provvedimenti contenuti nel documento congiunto Commissione Europea – Bei presentato lo scorso giugno, nel quale si prevede la creazione di «un meccanismo congiunto di condivisione dei rischi da prevedere nell’ambito del nuovo quadro finanziario pluriennale, aggregando le risorse del bilancio UE (COSME, Orizzonte 2020) e le risorse ESIF con la capacità di prestito della BEI, del FEI e delle banche nazionali di sviluppo e promozione».

Il tutto per incrementare l’effetto leva e di conseguenza la platea delle piccole imprese beneficiarie: «Il valore indicativo di 10 miliardi di euro proposto», recita la nota, «è una parte del totale di 400 miliardi di EUR della dotazione ESIF e di una percentuale relativamente ridotta del totale delle risorse ESIF che gli Stati membri e le regioni programmano di stanziare per le misure di sostegno alle PMI». Tra il 2007 e il 2011 gli Stati membri hanno impiegato soltanto 23 miliardi in programmi operativi a sostegno diretto delle Pmi, più altri 25 indirettamente. Troppo poco in un contesto in cui le sofferenze aumentano nei bilanci delle banche e la raccolta all’ingrosso sull’interbancario è bloccata (vedi i pronti contro termine) dalla balcanizzazione dei sistemi finanziari dei singoli Stati membri. 

Proprio questo è uno dei motivi che ha spinto Abi (associazione bancaria italiana) e Confindustria prima, e Unicredit (informalmente) poi, a chiedere al Governo una garanzia da 50-70 miliardi per sbloccare nuovo credito per 140 miliardi. Proposta rispedita al mittente dal ministero dell’Economia. Nella Legge di Stabilità le misure a sostegno degli istituti sono due: l’aumento per 1,6 miliardi della dotazione del Fondo centrale di garanzia – trasferito in via XX Settembre dal ministero dello Sviluppo Economico per avere un maggiore controllo – e la riduzione da 18 a 5 anni della deducibilità fiscale sulle perdite. Mossa che, secondo i calcoli di Mediobanca Securities, genererà un miliardo di profitti in più in due anni per i primi 9 istituti del Paese.

La ratio della misura europea è chiara: «In futuro, una volta che i portafogli saranno completamente creati e cartolarizzati, si produrrà un alleggerimento dei requisiti patrimoniali e si creerà ulteriore liquidità». Gli accantonamenti delle banche sulle esposizioni garantite da questi strumenti, infatti, saranno pari al 20 per cento dell’intero ammontare. Niente male: le regole di Basilea III impongono agli istituti di credito di ridurre la leva finanziaria e aumentare la dotazione di capitale allo scopo di immunizzarsi da shock esogeni. L’idea di rivitalizzare il mercato delle cartolarizzazioni – quelle sui prestiti stando ai dati Bce del secondo semestre 2013 hanno raggiunto i 1.332 miliardi (-10,1% anno su anno) – si scontra però con l’Asset quality review, la radiografia dei conti delle banche comunitarie (toccherà 130 banche europee, rappresentative dell’85% degli attivi dell’Eurozona) prodromica alla vigilanza unica sotto l’ombrello della Bce e al meccanismo unico di risoluzione.

L’Italia si presenta all’appuntamento con gli ispettori di Francoforte con un livello di sofferenze (crediti non più recuperabili, ndr) superiore alla media europea, anche per via dei criteri più stringenti della Banca d’Italia sulla loro definizione, in parte per l’eccessiva dipendenza delle imprese al canale bancario per finanziarsi. Scrive Moody’s: «I crediti problematici nel sistema bancario italiano sono più che raddoppiati dal 2007 al 2012, raggiungendo il 10,5% degli impieghi totali (2007: 4%), uno dei livelli più elevati dell’euro area». L’agenzia di rating sottolinea inoltre: «Ci aspettiamo che l’utile pre tasse rimanga parzialmente influenzato da elementi come il carry trade sui titoli governativi italiani». Credit Suisse ha calcolato in un recente report che il 10% degli attivi delle banche italiane sia investito in bond del Tesoro. Tuttavia, si tratta di una fonte di ricavo non sostenibile nel medio termine in quanto «espone le banche a potenziali rischi di ripagare i fondi ottenuti dalla Bce tramite l’Ltro, a meno che la Bce estenda l’Ltro oltre il 2015». 

Credit Suisse, Morgan Stanley, Goldman Sachs: tutti d’accordo nel ritenere che le banche europee avranno bisogno di 50-55 miliardi di nuovo capitale. Stando ai calcoli di Credit Suisse sulla base di una simulazione contenuta nell’ultimo Global financial stability report del Fondo monetario internazionale – in un contesto di crescita anemica e con un loss given default (Lgd, la differenza tra il valore del credito al momento del default e il valore del credito recuperato, ndr) del 45% – le perdite delle banche italiane si assesterebbero all’8% del Pil nazionale. Tuttavia, è la stessa Credit Suisse a riconoscere che l’Asset quality review «potrebbe rivelarsi un punto di svolta catartico per l’economia dell’euro area» se condotta secondo criteri ritenuti validi dalla comunità finanziaria, e non come gli ultimi stress test condotti dall’Eba (European banking authority). 

Solo una volta che i bilanci saranno puliti e certificati, le banche saranno pronte per una stagione di fusioni ed acquisizioni, che in Italia, a giudizio degli operatori, coinvolgerà gli istituti di media stazza come Carige, Banca Marche, e l’universo delle popolari, dalla Bpm al Banco Popolare. Come ha dichiarato Yves Mersh, membro francese del comitato esecutivo della Bce, tra il 2005 e il 2012 le fusioni e acquisizioni (M&A) tra banche europee è stato pari a un sesto rispetto agli Usa. 

Da quando arriverà la ripresa economica, invece, dipenderà invece la creazione di una bad bank in cui conferire i crediti non performing alla stregua della Spagna. Secondo la società di consulenza Oliver Wyman (clicca qui e vai a pag 26), scelta dalla Bce proprio per condurre l’Asset quality review, il modello per l’Italia esiste già e risale al 1996. All’epoca, il Banco di Napoli passò sotto il controllo del San Paolo di Torino, ma i suoi crediti deteriorati – 12.364 miliardi di lire – furono conferiti a una Sga (Società per la gestione di attività), una bad bank a cui Bankitalia ripianò il deficit fino al 2002. Poi la Sga iniziò a macinare utili, non solo recuperando la quasi totalità dei crediti (5 miliardi su 6,5 totali circa), ma riuscendo anche ad accantonarli a riserva per 400 milioni. Il modello c’è, basta applicarlo. 

Twitter: @antoniovanuzzo

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