Tomorrow I’m smoke: in morte di Lou Reed

L'inno alla vita del rocker

«Tomorrow I’m smoke», che poi vuol dire: domani mi cremano, domani sono fumo. Solo un personaggio come Lou Reed poteva scrivere un epitaffio così laico essenziale, solo lui poteva scrivere un concept album interamente dedicato alla morte, e intitolato Magic and Loss. Il pretesto dell’album era la scomparsa di due carissimi amici, malati di tumore, ma lui ne aveva tratto un viaggio quasi filosofico nella sofferenza, aveva cantato il tabù della morte. Le canzoni che costellavano l’album erano tutte le tappe di un calvario cantate come se fossero i salmi di una messa, e condite con l’ironia nera di cui solo lui era capace: «Avresti visto il tuo funerale da fuori e ci avresti detto: domani solo fumo». E giù uno di quegli inconfondibili assolo di chitarra e batteria asciutto, straziante, pieno di ritmo: una stupenda epigrafe, una moderna messa di requiem in rock.

Paolo Zaccagnini, uno dei critici musicali più talentuosi nati nella stagione pazza degli anni Settanta, ha ricordato i primi concerti a Roma, a cavallo del Sessantotto, fra contestazione e dissipazione. Lou Reed quella stagione l’aveva vissuta nella sua stessa carne: la rivoluzione culturale, il fermento, la sperimentazione, le droghe, Heroin. Ma quando dovrete spiegare cos’è stata la meteora del Sessantotto a un figlio nato nel XXI secolo, basterà fargli sentire in sequenza due album: l’ormai mitologico Velvet Underground & Nico, con la memorabile copertina disegnata da Andy Warhol, e la voce solista celestiale di Nico. E subito dopo un altro disco uscito nello stesso anno: White Light/White Heat, in cui tutte le speranze accese nel disco precedente con il tono di ballata lisergica da una stagione di utopia, si chiudevano nelle sonorità elettriche avvelenate di un prematuro crepuscolo.

Il primo disco, comunemente ribattezzato “la banana” per la sua copertina pop, era stato comprato da un pugno di ammiratori che si contavano sulle punte delle dita: «Soltanto cento persone acquistarono il primo disco dei Velvet Underground – ha detto una volta il produttore Brian Eno – ma ciascuno di quei cento oggi o è un critico musicale o è un musicista rock». Le canzoni di quel disco però, a partire dalla bellissima e magica Sunday morning, sono tutte diventate classici. È che i Velvet Underground erano troppo avanti, e si erano autodistrutti nella corsa come una meteora. Ed era troppo avanti anche Lou Reed nella sua prima carriera da solista. Dopo capolavori come Transformer e Berlin, dopo successi come Satellite of love, si era perso. Dicevano che era quello della semplicità assoluta: solo voce basso e chitarra, molto spesso. Ma dietro quella semplicità c’era un lavori enorme, un romanzo di formazione infinito.

Lou aveva iniziato nel 1961 conducendo un programma radiofonico notturno alla stazione radio WAER chiamato “Excursions On A Wobbly Rail”. Un nome che derivava da un brano musicale del pianista jazz Cecil Taylor. Nel corso della trasmissione, Reed trasmetteva doo wop, rhythm and blues e jazz, in particolare brani free jazz. Il suo modo innovativo e unico di usare la chitarra, derivava dallo studio di sassofonisti come Ornette Coleman: era un gigante del rock che affondava le sue radici nel jazz.

Dopo essersi spento negli anni Ottanta, perso nella perdita della creatività e nel buco dell’eroina, Lou Reed si era ritrovato con una grande trilogia di dischi avviata da New York, e proseguita con Songs for Drella. Ovvero per il nomignolo che lui e i suoi compagni avevano riservato al loro Pigmalione, Andy Warhol, una sorta di auto-etero-biografia spalmata per tutto un album in cui loro stessi si riservavano il ruolo di comparsa in un verso: “Ecco, quello è un barattolo di zuppa/ ma posso dire che è arte/ ecco, quel gruppo si chiama Velvet Underground / ti piace il loro sound?”.

Adesso, però, mi viene in mente che Lou Reed non deve essere ricordato con una canzone (si fa per dire) meno nota, tratta proprio da Magic and Loss: Wath’s good. Il più disincantato e beffardo inno alla vita da canticchiare tra sé e sé nei momenti felici e in quelli duri:

“La vita è come una bibita alla maionese/

e la vita è spazio senza luogo/

e la vita è come un gelato col bacon/

ecco cos’è la vita senza di te/

La vita è un perenne divenire/

ma la vita ha sempre a che fare col dolore/

la vita è morte senza vita/

ecco cos’è la vita senza di te”