Un castello in Italia: il non più dolce far niente

Il terzo lavoro di Bruni Tedeschi

Si conferma al cinema, senza dubbi né esitazioni ed anzi con sorriso di commedia sulle labbra, una strana agghiacciante tendenza a raccontare gli italiani come gente che non fa una mazza. L’inoccupazione come vocazione. Lo dimostra una volta di più l’ultimo film firmato da Valeria Bruni Tedeschi, Un castello in Italia, titolo vagamente coloniale realizzato con soldi francesi, ambientato un po’ al di qua e un po’ al di là delle Alpi, in agile e perfetto bilinguismo. Qui i personaggi, più inutili perfino di un Jep Gambardella o di una Buy che per mestiere assegna i voti agli hotel a cinque stelle, girano e voltano per ritrovarsi infine a realizzare il nulla.

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Evidentemente c’è parecchia materia per psicologi e assistenti sociali se il quadro restituito sul nostro Paese non va oltre questo schema, così sorridente, così annichilente. Ma intanto rimaniamo alle suddette magioni italiche e annessi abitanti: Valeria Bruni Tedeschi interpreta Louise, che faceva l’attrice anni e anni prima ma poi non ha fatto più nulla, e continua nell’andazzo tutto il giorno, tutti i giorni. Nulla fa pure suo fratello Ludovic, e non perché sia malato di Aids ma perché proprio non ha mai fatto niente, da sempre. Niente fa la di lui fidanzata poi moglie, e niente fa il nuovo fidanzato di Louise, Nathan (Louis Garrel), che in teoria farebbe l’attore ma decide di smettere perché non c’ha più voglia: meglio niente. Perfino Pippo Delbono è un prete che arriva tardissimo in chiesa per un funerale, sicché la messa mezza la dice e mezza no. La nullafacenza italiana è condivisa da quella francese. Tricolori sfaccendati per malconci rentiers di campagna.

Comunque questo è: il nulla l’è meglio che il piuttosto, e a conti fatti è certamente preferibile a qualsiasi impegno o sbattimento. C’è sempre da vendere il Brueghel (peraltro a soli 2 milioni e mezzo di euro, mah) e poi il castello e tutto quanto, alle aste di Londra e ai nuovi ricchi russi scesi in Piemonte.

In questo elegante scenario, che quando non è pavigino è almeno tovinese, Valeria Bruni Tedeschi introduce in abbondanza segni di autobiografia. Per fortuna ci ha risparmiato la sorella modella che si accasa all’Eliseo e strimpella la chitarra, in compenso però c’è la madre nella parte della madre che suona il piano come già nella vita. E come nella vita reale, c’è un fratello che muore. Come nella vita reale, lei, Valeria-Louise, ha una relazione con Garrel (relazione nel frattempo chiusa). Come nella vita reale, Garrel è figlio di un regista. Come nella vita reale, in quello stesso castello di Castagneto Po, sopra Torino, vivono i Rossi Levi (il cognome della famiglia) come già vissero i Bruni Tedeschi.

Per il suo agrodolce, sciccoso, erremoscio album di famiglia, fitto di delusioni e di tragedie (la malattia, le difficoltà economiche, l’inseguimento vano della maternità, anche a costo di scendere fino a Napoli per raccomandarsi a santa Maria Francesca delle cinque piaghe, la santa delle aspiranti mamme), Bruni Tedeschi batte la pista del racconto familiare intrecciato alla storia sentimentale, confrontandosi con modelli come il Cechov delle commedie, il De Sica letterario del Giardino dei Finzi-Contini, il Bellocchio di Salto nel vuoto. Ma la regista non si dimostra abbastanza profonda e spregiudicata per andare oltre le metafore telefonate (la vita recisa come l’albero tagliato, le stagioni che segnano le fasi della vita…) e soprattutto le sue figurine sofferenti e programmaticamente simpatiche, compiacendosi invece dell’eccessivo pudore altoborghese verso i suoi personaggi (che coincidono poi con le sue persone care), un po’ ricattatorio (vedi la morte del fratello), e troppo timido e in fondo reticente nel descrivere le responsabilità – nemmeno accennate – del declino inesorabile di questa famiglia. Declino dovuto, a quanto ci è mostrato, non a destino o a spirale di tragedia. Ma essenzialmente a fannullonismo. Il che al massimo rende il tutto materia eccitante per un Brunetta.

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