Great game afghanoAfghanistan, terra di scontro tra Cina e America

Firmato l’accordo per il ritiro Usa

Non serve avere letto Rudyard Kipling per essere a conoscenza del Great Game, il duello che mise di fronte in Asia centrale l’impero britannico e quello degli zar di Russia. Oggi questo Great Game ha volti e nomi diversi, ma l’Afghanistan resta un Paese tanto centrale quanto inafferrabile nello scacchiere internazionale.

Dopo mesi di trattative,  Washington e Kabul hanno finalmente raggiunto un’intesa su quello che avverrà a partire dal prossimo anno, quando la maggior parte delle truppe americane lascerà il Paese. Gli Usa manterranno comunque una presenza militare in questo teatro strategico, che non perde mai occasione di tenere fede alla propria fama di “cimitero degli imperi”. Il presidente afgano Karzai ha parlato di un contingente che andrà dai 10.000 ai 15.000 uomini, anche se il numero effettivo sarà probabilmente più basso.

L’accordo è stato sottoposto al voto della cosiddetta Loya Jirga, l’assemblea composta da circa 2500 leader tribali, che ha già dato il proprio via libera. Più complicato appare il vaglio del Parlamento afghano, dove un certo numero di deputati contesterà alcuni punti dell’intesa, giudicati lesivi della sovranità nazionale. I negoziati non sono stati facili, ma sostanzialmente gli americani hanno avuto partita vinta sui due principali motivi del contendere. Primo, l’immunità per i propri soldati, che, in caso di controversie, saranno giudicati da un tribunale statunitense e non da una corte locale. Secondo, il diritto ad entrare nelle abitazioni private, soprattutto di notte, a caccia di terroristiUna possibilità che, secondo Kabul, si presta agli arbitrii di Washington, e produce danni tra i civili, non contribuendo affatto a costruire un rapporto più disteso tra i soldati americani e la popolazione locale, chiave essenziale della strategia di counter-insurgency. La formula dell’intesa prevede che questi raid possano avvenire in «circostanze straordinarie».

Karzai non può rinunciare ai miliardi di dollari promessi dagli Stati Uniti e dalla comunità internazionale, per cui ha dovuto concedere quello che solo due anni fa era stato rifiutato dal premier iracheno al Maliki, il cui secco no sulla questione dell’immunità portò gli americani a optare per un ritiro pressoché totale. Allo stesso tempo, il presidente afgano ha cercato il modo per salvare la faccia e prendere tempo. Così si spiega il fatto che, secondo Karzai, l’accordo, valido per dieci anni, dovrà essere siglato formalmente dal suo successore, il vincitore delle elezioni dell’aprile 2014. La Loya Jirga ha chiesto che l’intesa venga firmata entro la fine dell’anno, ma il presidente è rimasto fermo sulle proprie posizioni, minacciando di far saltare il banco. La tradizionale ambiguità di Karzai spiega anche l’affaire della lettera, che accompagnerebbe l’intesa, in cui gli Stati Uniti si scuserebbero per le vittime civili e i “danni collaterali” dei dodici anni di guerra. Secondo alcune fonti, John Kerry avrebbe offerto al presidente afghano la propria firma, ma Karzai avrebbe voluto un impegno in prima persona di Obama. La consigliere per la sicurezza nazionale, Susan Rice, dal canto suo, ha escluso categoricamente l’esistenza di un simile documento, dal momento che gli Usa non devono scusarsi di nulla. L’affaire dimostra due fatti. Primo, l’inaffidabilità di Karzai, celebre per le sue giravolte. Secondo, la profonda divergenza tra la Segreteria di Stato e la Rice, che avrebbe occupato il posto di Kerry se solo Obama non avesse rinunciato alla sua nomina, per evitare il fuoco di sbarramento dei repubblicani.

L’opinione pubblica statunitense ha voglia di mettersi alle spalle l’impegno in Asia centrale, per concentrarsi sui problemi domestici, e lo stesso Obama non considera più così centrale la “guerra di necessità” che si combatte a Kabul. Il “pivot to Asia” di cui parlava Hillary Clinton, lo spostamento ad Est degli interessi geopolitici americani, riguarda più il Pacifico, la lotta per il controllo delle rotte marine e dei giacimenti off shore, che l’area di tradizionale interesse dell’Af-Pak, foriera soltanto di problemi. Eppure dichiarare vittoria, coi talebani ancora in piedi, e fare i bagagli è una strategia non priva di conseguenze. La stabilità afghana resta comunque essenziale per gli interessi di Washington. Basta guardare ai confini di Kabul: Pakistan, Iran. Se l’Afghanistan tornasse ad essere un failed state e un santuario terroristico, le conseguenze andrebbero ben al di là dei suoi confini.

Obama vuole trovare un punto d’incontro coi Paesi del Medio Oriente e dell’Asia Centrale per potersi dedicare ad altro. Ma è difficile fare rispettare gli accordi e garantire la stabilità se non mantenendo truppe sul terreno, come si è visto in Iraq, dove il conflitto tra sunniti e sciiti è riemerso dopo la partenza degli americani. In un periodo in cui la costosa formula «boots on the ground» non gode di grandi simpatie, l’intesa su Kabul è una notizia importante, anche perché un eventuale fallimento delle trattative avrebbe avuto un impatto negativo sugli altri Paesi Nato impegnati nell’area. L’esercito afghano riceverà 4 miliardi all’anno di fondi e i compiti del contingente americano saranno rivisti (più addestramento dell’esercito locale, meno operazioni di counter-terrorism). Molti restano comunque scettici sul fatto che diecimila uomini saranno sufficienti a mantenere l’ordine, visto che l’obiettivo è rimasto lontano anche all’epoca del surge voluto dal generale Petraeus, quando i soldati erano dieci volte tanto.

In Afghanistan si gioca la partita Cina-Usa

Non ci sono dubbi, però, sul fatto che l’Asia centrale sia già uno dei campi principali del confronto tra le due maggiori economie del pianeta, Cina e Stati Uniti. È sufficiente guardare ai progetti energetici. Da una parte la pipeline che i cinesi vogliono costruire fino al porto pakistano di Gwadar, dall’altra la “nuova via della seta” che gli americani intendono mettere in piedi per trasferire il gas turkmeno verso l’India. Solo mantenendo una forte presenza militare in Afghanistan gli americani potrebbero tenere a bada i cinesi, che stanno mettendo in campo il loro peso economico e con grande pragmatismo strizzano l’occhio a tutti, talebani compresi.

Già negli anni Novanta, dopo la presa del potere da parte degli studenti coranici, la Cina aveva avviato contatti con il mullah Omar. Il timore principale di Pechino era che l’Afghanistan talebano diventasse una base operativa per i separatisti uiguri dello Xinjiang – una regione della Cina occidentale – turcomanni e di religione islamica. Anche dopo l’intervento della Nato a Kabul, i cinesi, pur conservando buoni rapporti con Karzai, hanno mantenuto un canale di comunicazione con la shura di Quetta, un gruppo di talebani afghani del vicino Pakistan. Adesso che anche gli americani, in vista del ritiro, hanno avviato contatti coi taliban – sebbene i primi tentativi di intesa, in Qatar, si siano immediatamente arenati – l’attivismo cinese si è fatto più intenso.

Probabilmente anche al Dragone non converrebbe il prevalere della cosiddetta “opzione zero”, che porterebbe gli Stati Uniti a mollare del tutto gli ormeggi, come in Iraq. Ciò che interessa primariamente alla Cina è la stabilità, l’ordine, premessa necessaria per il business. Se a questo provvedono gli americani, tanto meglio. Ma Pechino vuole essere preparata ad ogni evenienza. Il focus è sempre orientato sulle risorse minerarie afghane, necessarie per continuare ad alimentare il motore dell’economia più dinamica del G-20.

La principale miniera di rame del Paese, quella di Aynak, la cui gara è stata vinta dalla China mettalurgical group corporation, si trova in una zona in cui è forte l’influenza della rete Haqqani, un gruppo islamista che opera tra Pakistan e Afganistan. Più in generale, la Cina non vuole essere colta di sorpresa nel caso in cui i talebani dovessero tornare al potere a Kabul. Pechino dedica una cura particolare a coltivare il rapporto con i pakistani, che a loro volta continuano a guardare all’Afghanistan come a una loro provincia. La strategia cinese non cambia: parlare con tutti, attraverso la lente focale dei propri interessi economici.

Non c’è solo la miniera di Aynak. Nel Nord dell’Afghanistan, lungo il bacino del fiume Amu Darya, ci sono grandi riserve petrolifere. La Cina ha già stipulato accordi per esportare il greggio ed è in programma la costruzione di una raffineria locale. Come in ogni Paese in cui si trova ad operare, Pechino si impegna ad intervenire sul lato delle infrastrutture, strade, ponti, ferrovie, in cambio di materie prime. Un altro bacino del Nord afghano, quello di Tajik, è considerato ancora più ricco di petrolio rispetto a quello di Amu. Entrambi detengono anche riserve di gas, che negli anni Settanta Kabul era solita esportare nelle repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, in cambio di cibo e forniture militari.

Queste risorse, peraltro, si trovano in una zona del Paese abitata da tribù uzbeke, tagike e turkmene, gruppi etnici che appartenevano all’Urss e ai quali la nuova Russia muscolare di Putin, con il suo progetto di Unione Eurasiatica, guarda con sempre maggiore interesse. Cina versus Stati Uniti. Cina versus Russia. Nel cimitero degli imperi l’ennesima partita del Great Game è appena iniziata.

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