Andrea Bonomi si sfila dalla contesa per la governance della Popolare di Milano. «Come consiglio di gestione non presenteremo una lista perché se ci siamo impegnati a gestire indipendentemente gli stakehlolder non ha senso che ne esprimiamo una», ha detto rispondendo a un analista nel corso della call seguita ai risultati dei nove mesi, aggiungendo: «Da quando sono diventato presidente della banca ho dato le dimissioni dalle cariche in Investindustrial (principale azionista all’8,6%, ndr), ma assumo che non si voglia prendere la briga di fare una campagna, penso si potrebbe presentare per uno dei due posti (su 17 complessivi) riservati ai fondi all’interno del consiglio di sorveglianza». Tradotto: scannatevi pure e vedetevela voi con le agenzie di rating – S&P ha declassato l’istituto a BB-, vicino al livello “spazzatura” – Bankitalia e Bce. «Quando proponi una Spa ben pensata e coerente, che risolverebbe i problemi, ti sparano addosso, quando proponi una popolare bilanciata ti sparano per altri motivi, con l’assemblea rimetti la responsabilità di dare una governance adeguata a chi ha i voti», ha osservato il presidente uscente di Piazza Meda. Il ragionamento è semplice: per evitare atteggiamenti che frenino un cambiamento «improcrastinabile» è essenziale responsabilizzare chi controlla l’assemblea. Le liste, ha detto infatti Bonomi, non si dovranno limitare a presentare i nomi per gli organi sociali, ma anche indicare con chiarezza quale tipo di governance portare avanti.
Le consultazioni per la loro formazione intanto proseguono senza sosta, anche se c’è chi, usando una battuta neanche troppo lontana dalla verità, dice che si deciderà tutto “come in politica, la sera prima“ del termine ultimo per presentarle. Ovvero il 24 novembre. La nuova linea di Bonomi potrebbe paradossalmente rendere inutile il procedimento, qualora Raffaele Mincione (azionista al 7%) – che ha fatto saltare il banco schierandosi contro il rinnovo del consiglio di gestione supportato dallo studio Nctm – riuscisse a convincere i dipendenti-soci e gli esponenti dell’ex associazione Amici della Bpm. I sindacati, in ogni caso, non hanno ancora sciolto la riserva sul finanziere italo-londinese.
Guardando ai conti, i nove mesi del 2013 segnano il ritorno all’utile a 134 milioni rispetto alla perdita di 106 milioni di settembre 2013, proventi operativi a 1,3 miliardi (+9,7%) e un cost/income – il rapporto tra i costi e il margine d’intermediazione, misura dell’efficienza gestionale – che scende dal 63 al 57,7% anche in virtù della riduzione dell’organico a 7.898 dipendenti (-7%). Dati confortanti che non cancellano le difficoltà dell’istituto: il margine d’interesse scende del 4% a 631 milioni, mentre aumentano esponenzialmente le rettifiche sui crediti a 261 milioni (+24,5%). Le sofferenze, ovvero i crediti non più recuperabili, salgono di circa mezzo miliardo nel giro di nove mesi, da 1,9 a 2,3 miliardi – il tasso di copertura sale dal 48,9 al 62,7% in dodici mesi – mentre il complesso dei crediti dubbi si assesta a 4,9 miliardi sui 4,2 dello scorso dicembre. Le commissioni nette in crescita a 402 milioni (+13,5%) indicano che si sta pigiando decisamente sull’acceleratore del commerciale, collocando prodotti assicurativi e di risparmio gestito.
La fragilità di Piazza Meda è poi testimoniata dal Core Tier 1 che passa dall’8,38 al 7,25% nell’arco di nove mesi, fermandosi a un livello non sufficiente ai fini dell’asset quality review della Bce, che lo prevede all’8 per cento. Con l’aumento di capitale da 500 milioni l’asticella si alzerebbe a quota 10,32%, ma la guerra per la governance non consente di fare previsioni certe sulla sua esecuzione. Si sa soltanto che al consorzio di garanzia è stata chiesta una proroga da fine aprile a fine luglio, proprio alla luce della recente tempesta.
La Banca d’Italia sta alla finestra. Dopo aver fondamentalmente perso la battaglia per la trasformazione in Spa e aver toccato con mano quanto siano complicati i processi decisionali nel sistema duale, i suoi margini di manovra sono risicati. La moral suasion non ha funzionato, gli ispettori e gli add-ons nemmeno. L’ex premier Lamberto Dini, figura individuata da Mincione come potenziale presidente dell’istituto, ha dichiarato al Corriere: «Visto che sono stato direttore generale della Banca d’Italia voglio accompagnare chiunque possa avere un ruolo per risolvere i problemi esistenti della Bpm, e quindi i conflitti tra i soci, con programmi che puntino alla trasformazione in società per azioni», attaccando indirettamente Bonomi: «Ho esaminato i bilanci, ho visto le perdite 2011 e 2012, ora il 2013 dovrebbe chiudere in attivo attraverso partite non ricorrenti, e dunque sembra che il risanamento che Montani (l’ex consigliere delegato, ndr) vuole vantare non c’è». Dalle parti di Piazza Meda c’è chi sostiene come la maggioranza in Regione stia seguendo da vicino l’evolversi della situazione, magari indicando qualche nome “di fiducia” nelle liste. D’altronde, in questa partita gli appetiti sono molteplici, ma ben pochi per questioni di mercato.