Comunque vada l’assemblea del 21 dicembre, la presidenza del consiglio di sorveglianza della Banca popolare di Milano andrà ad un arzillo vecchietto. In lizza ci sono Lamberto Dini, 83 anni, e Piero Giarda, classe 1936. Ex presidente del Consiglio e direttore generale della Banca d’Italia l’uno, ex minstro del governo Monti l’altro. I due si conoscono bene: il secondo è stato sottosegretario del primo – assieme a Lamberto Cardia – quando dal ’95 al ’96 Dini è stato ministro del Tesoro e premier ad interim in seguito alla crisi del primo governo Berlusconi. Lodigiano, docente in Cattolica, ex collaboratore di Tommaso Padoa Schioppa sulla spending review, Giarda era stato nominato da via Nazionale alla presidenza della Banca popolare italiana (ex popolare di Lodi) per riparare i danni di Giampiero Fiorani, amico dell’ex vicedirettore di Palazzo Koch e ora presidente della Rai, Anna Maria Tarantola.
Proprio Fiorani, nel corso di un interrogatorio ripreso dai giornali nel 2010, aveva svelato particolari inediti che riguardavano una consulenza da 250mila euro assegnata dalla Popolare di Lodi all’avvocato Marco Cardia – figlio dell’allora presidente Consob Lamberto – tirato in ballo in questi giorni da Jonella Ligresti nell’interrogatorio dello scorso 17 dicembre presso la procura di Milano.
Da consigliere della Bpm sotto la presidenza di Roberto Mazzotta, nel 2006 Giarda finì multato da Consob per 10mila euro per il collocamento dei corporate bond di Parmalat, Giacomelli, Italtractor, Lucchini e Giochi Preziosi. Secondo l’authority, presieduta proprio da Lamberto Cardia, l’istituto non aveva fornito ai sottoscrittori «informazioni adeguate sulla natura, sui rischi e sulle implicazioni delle specifiche operazioni» oltre ai conflitti d’interesse «derivanti da rapporti di affari di società del gruppo». Sempre nel 2006, da presidente della Bpi Giarda traghettò la fusione con la Banca popolare di Verona e Novara e Cattolica Assicurazioni che diede vita al Banco Popolare. Particolare non secondario: l’advisor era Mediobanca – assieme a Rothshild allora presieduta da Franco Bernabè – (e azionista di SelmaBipiemme Leasing con Piazza Meda) garante dell’aumento di capitale da 800 milioni chiuso nel 2011 e mancato azionista per il rotto della cuffia grazie proprio alla Time & Life di Raffaele Mincione e Lamberto Dini.
A marzo 2007, nel corso del suo intervento all’assemblea che decretò la fusione tra Bpi e la Popolare di Verona e Novara da cui nacque il Banco Popolare, Giarda dichiarò che il matrimonio rappresentava «un elemento importante del processo di riordino del sistema bancario del nostro paese». Parole non casuali: nei mesi precedenti Giarda e l’amministratore delegato, Divo Gronchi, avevano ricevuto una lettera, vergata dal neogovernatore Mario Draghi, che non lasciava spazio a interpretazioni:
«In considerazione delle problematiche aziendali, dell’incertezza sugli esiti dell’azione di riassetto e sui relativi tempi di attuazione, dell’accentuarsi di spinte concorrenziali, si ribadisce che codesta popolare dovrà valutare l’ipotesi di un’integrazione con intermediari di adeguate dimensioni».
Detto fatto. Per questo il coinvolgimento del docente di Scienza delle finanze – e consigliere del Banco popolare fino alla nomina a ministro – nella partita Bpm ha rinfocolato i rumors estivi di una possibile fusione tra l’istituto veronese e quello meneghino. Se la casella dell’amministratore delegato dovrebbe essere occupata da Giuseppe Castagna, ex direttore generale di Intesa Sanpaolo, tra i nomi dei papabili ci sono due ex del Banco come Carlo Salvatori e Fabio Innocenzi, ex amministratore delegato dell’istituto scaligero oggi a Ubs. Quest’ultimo, assolto a maggio dall’accusa di aggiotaggio nell’ambito del crac Italease, non sembra per nulla intenzionato a lasciare i vertici dell’istituto elvetico in Italia.
«Se mi viene chiesto di essere presente, sarò presente. Io vorrei sapere dai miei amici di Banca d’Italia qual è il pensiero e la strada che Bankitalia deciderà che la Bpm intraprenda», ha dichiarato una settimana fa al Corriere della Sera Lamberto Dini. Parole forse un po’ troppo confidenziali, che sembra non siano state gradite a Palazzo Koch. Tra gli “amici” in questione c’è sicuramente Luigi Federico Signorini, membro del direttorio di Bankitalia e suo ex consulente quando era presidente del Consiglio, come recita il suo curriculum. Tant’è che, secondo quanto risulta a Linkiesta, ora Signorini propenderebbe decisamente per la trasformazione delle Bpm in Società per azioni. La medesima posizione, a tendere, della lista disegnata da Mincione.
Insomma, vista dalla prospettiva di Bankitalia cambia l’ordine dei fattori, ma non l’obiettivo finale: la messa in sicurezza di uno dei principali istituti del Paese, situato in una delle aree più ricche d’Italia. Alla luce dello scandalo Mps, e con l’asset quality review della Bce ai nastri di partenza, la missione va portata a termine il prima possibile. Dopo aver inutilmente spalleggiato Bonomi nella proposta di trasformare Piazza Meda in società per azioni, idea peraltro made in Mario Draghi, via Nazionale ha ammorbidito le sue posizioni quando ha capito che si rischiava di compromettere l’aumento di capitale da 500 milioni. Quasi fuori tempo massimo. E ora Bpm ci riprova con due candidati conosciuti dal vigilante. Due Mr. Wolf che, attraverso strade diverse, dovranno recuperare il tempo perduto anche a causa degli errori di valutazione da parte di Palazzo Koch. Sebbene, come riconosce un ex ispettore, per risanare Piazza Meda ci sia un’unica mossa da fare: riformare il voto capitario.