Che questi morti entrino nella Legge di Stabilità

L’alluvione in Sardegna

Lo dico con cinica lucidità, e anche con rassegnata disperazione: speriamo che questi morti dell’alluvione sarda servano almeno a qualcosa. Speriamo che questa ennesima strage non sia inutile e non si risolva solo nella gestione, più o meno eroica dell’emergenza, nel romanzo della generosità estrema e del salvataggio postumo. A fare i miracoli quando il disastro è già successo siamo bravissimi: a investire perché non accada, non lo siamo per nulla. Speriamo allora che questi morti servano a produrre un senso comune ed un effetto di pressione sulla politica, a far sì – per esempio – che concretamente, nella prossima legge di stabilità, per la difesa e la tutela del suolo siano messi a bilancio i 500 milioni di euro che dovrebbero esserci, e che sono stati chiesti all’unanimità dai membri della commissione ambiente della Camera, e non solo i miseri 30 milioni che sono stati ipotizzati fino ad oggi, nel tempo del rigore.

Non si tratta di una svista: gli ultimi due governi quel bilancio lo hanno considerato sempre accessorio (al punto che tre anni fa lo avevano addirittura azzerato) come una delle variabili su cui giocare per risparmiare, nella speranza di far quadrare i conti. E invece, ognuna di queste catastrofi – dalla Toscana alla Liguria, solo per citare le ultime – dovrebbe ricordarci, casomai fosse necessario, che le opere di prevenzione servono a mettere in sicurezza i nostri territori. Le opere di prevenzione servono a impedire che dagli alvei dei fiumi – dove spesso in questo paese si consente addirittura di costruire – agli edifici non a norma, nel momento della catastrofe si arrivi al collasso. Adesso, come è noto, la legge di stabilità è al Senato: i sottosegretari competenti dicono che la richiesta della Commissione ambiente è legittima, ma perché quei morti non siano inutili, occorre che le buone parole siano seguite dai fatti, e quindi dallo stanziamento immediato dei fondi.
 

È vero, oggi sembrano parole scritte sull’acqua, ma bisogna anche costruire una cultura della protezione civile. Occorre che la gente sappia cosa si deve fare quando si arriva all’emergenza, qualcosa di più dell’istinto atavico che la porta ad arrampicarsi su di un tetto o la sconsideratezza che talvolta li spinge a mettersi in macchina mentre diluvia. Siamo di fronte, però, a uno scenario che purtroppo è destinato a ripetersi.Viviamo in un paese in cui i territori sono stati cementificati in deroga a qualsiasi piano e  in cui le aree verde sono state deboschificate volontariamente o diradate dagli incendi: bisogna invertire la prospettiva con opere di lungo respiro, servono tempo e soldi. La prima battaglia da fare, per esempio, è semplicissima: occorre una deroga al patto di stabilità, che sottragga al vincolo di cassa imposto dall’Europa le opere di messa in sicurezza del territorio e degli edifici pubblici. Dal momento che oltre la metà delle scuole italiane sono state costruite prima delle norme sulla messa in sicurezza (ad esempio quelle antisismiche) questa deroga consentirebbe investimenti importantissimi, e far ripartire edilizia e cantieri.  Sembrano tanti, 500 milioni di euro in questo scenario? In realtà 500 milioni rappresentano solo un ottavo dell’Imu sulla prima casa. Ma stanziare questa cifra comporterebbe un cambio di mentalità:  spendere per conservare e non solo per dissipare. Sembra un grande salto in avanti? Dipende.

Ci sono stati dei luoghi in cui nei secoli passati l’ambiente veniva gestito meglio di come viene amministrato oggi: i borboni, per sempio, avevano costituito un sistema di prevenzione idrogeologica, i “regi lagni” che canalizzavano l’acqua e la incanalavano per impedire le esondazioni. L’opera, che si estendeva per oltre mille chilometri quadri, attraversava le province di Caserta, Avellino, Napoli e Benevento, e fu terminata nel 1616, da un vicerè spagnolo, Pedro Fernandez Castro. In quella stessa area – invece – gli uomini del nostro secolo avevano costruito sugli invasi vanificando quella geniale prevenzione, e come sappiamo accadde così la catastrofe di Sarno, con un paese interamente sepolto nel fango.

È una strana lezione: gli uomini del XIV secolo erano stati più previdenti di noi: non è un dato rassicurante, nell’anno in cui abbiamo celebrato il cinquantesimo anniversario della catastrofe del Vajont come se fosse una storia lontana, un ricordo che non ci riguarda più.  

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