RugbyEssere la squadra più forte del mondo

All Blacks

Una delle convinzioni più radicate riguardo al rugby è che la squadra più forte vince. Sempre. Probabilmente è vero, i numeri fanno la differenza, ma c’è modo e modo. Questo articolo, comparso qualche giorno fa su L’Ultimo Uomo, avrebbe dovuto essere semplicemente un’analisi dettagliata degli All Blacks, scritta a una partita dal record assoluto di vittorie. Un po’ un “vendere la pelle dell’orso prima di averla al collo”. Avrebbe dovuto essere la mera celebrazione di un successo più volte annunciato, e troppe volte evitato per un soffio. Ora, alla luce di quanto successo ieri all’Aviva Arena di Dublino, occorre una precisazione. 

L’ultima partita, quella contro l’Irlanda, quella che sembrava in tasca dall’inizio della stagione, quella che non avrebbe dovuto dare problemi, gli All Blacks l’hanno vinta. Solo che non è andata liscia come tutti immaginavano. L’Irlanda ha dominato per tutto il primo tempo, concedendo pochissimo ai Neozelandesi che, forti di una presunzione troppe volte deterrente, hanno commesso un’infinità di errori. Sotto di tre mete e un calcio dopo una decina di minuti di gioco, avendone giocati quaranta con l’aria di chi è appena stato travolto da un tornado, con tutta la difficoltà nel tenere la palla in mano di chi ha perso un ammontare non indifferente di fiducia, gli All Blacks hanno più volte provato a tornare in partita aggrappandosi a pochi elementi solidi – Ma’a Nonu, Kieran Reads, Richie McCaw e Israel Dagg più che altri – e piano piano, con la determinazione di chi ha un obiettivo enorme, hanno strappato punto dopo punto a un Irlanda meravigliosa, orgogliosa, mai vista. 

L’ultima meta All Black, quella del pareggio, è arrivata qualche secondo dopo la fine del tempo, Cruden ha sbagliato la trasformazione ma ha ottenuto una seconda chance per un’irregolarità degli irandesi, forse troppo eccitati dall’essere arrivati tanto vicini all’impresa. Alla fine i migliori hanno vinto di due punti, e coronato il record.

Ora, la retorica che affligge il rugby spingerà molti a dichiarazioni sensazionalistiche che vorrebbero la Nuova Zelanda vincitrice in maniera scorretta e l’Irlanda privata di una vittoria doverosa dalla depravata orda nera. La verità è che gli irlandesi, pur avendo giocato splendidamente, si sono trovati di fronte la squadra più forte del mondo – ora è possibile togliere il punto interrogativo al titolo originario. Una squadra in grado di sbagliare tutto per più di un tempo, trovarsi in netto svantaggio mentale, essere sul punto di gettare la spugna, e non lasciare andare. Prendere tutto quello che si può, quando si può e con i mezzi che si hanno. Se dall’altra parte del campo ci fosse stata qualsiasi altra squadra, alla terza meta segnata avrebbe ceduto la presa e si sarebbe addormentata sugli allori, l’Irlanda ha il merito enorme di non essersi lasciata andare all’entusiasmo e di aver mantenuto il controllo. Però gli All Blacks sono i più forti, anche e soprattutto per essere stati in grado di ribaltare il gioco e conquistare quei due punti maledetti in nome dell’orgoglio e del rugby che stanno cambiando e che, per quanto mi riguarda, potrebbero benissimo essersi inventati. 

L’analisi

È successo alla vigilia di una partita fondamentale, che l’allenatore avversario definisse gli All Blacks la squadra più forte del mondo. Non la squadra di rugby più forte del mondo, ma proprio la migliore compagine di atleti a confronto di qualsiasi altra in qualsiasi altro sport. Il coach era Stuart Lancaster e la squadra che allena lui è l’Inghilterra, che lo scorso 16 novembre ha incontrato i neozelandesi durante il loro tour d’autunno, a Twickenham. Il perché un test match – un’amichevole si potrebbe dire se esistesse questa definizione nel vocabolario dei rugbisti in generale e dei britannici in particolare – fosse tanto importante da far sì che l’allenatore di casa si sbilanciasse in questo modo riguardo agli ospiti, è insito nel senso stesso del rugby come gioco. In ogni partita c’è un maledetto torto da raddrizzare o un moto d’orgoglio da portare in campo. Quello dei Kiwis in questo caso era la necessità di sistemare le medie, raddrizzando l’unica sconfitta subita dal trionfo al mondiale del 2011, proprio contro l’Inghilterra. Stiamo parlando di due anni di vittorie consecutive, rotte soltanto dall’incidente contro i Roses (del novembre 2012).

Hanno vinto, aggiungendo il penultimo piolo della scala che porta al grande slam. Gli inglesi gliel’hanno fatta penare (ma nemmeno più di tanto) e così hanno riassestato l’asse terrestre perché tornasse l’estate nell’emisfero sud.

L’importanza dei “caps”

C’è una cosa in particolare che mi è sempre piaciuta del rugby, l’infinita gamma di parallelismi possibili con la marineria. L’esempio lampante sta in quanto sul campo conti l’esperienza. Un bravo giocatore è costruito sulle partite giocate esattamente come un bravo marinaio si forgia sul numero di miglia navigate. E allo stesso modo è segnato nel fisico – concedetemi il romanticismo.

Così diventa normale che una squadra come la Nuova Zelanda che schiera, tra titolari e riserve, una media di caps – vale a dire di presenze con la maglia nera e la felce sul petto – di 40,5 per giocatore, con quattro elementi che superano singolarmente le ottanta presenze, non sta schierando un team, ma un reggimento di marina. Se poi tra i ventitré ce n’è uno che nella sua carriera internazionale ha realizzato personalmente 1440 punti complessivi – quasi quindici a partita giocata, vale a dire due mete e qualcosina – allora il reggimento si arma di una contraerea e diventa difficile non frenare gli entusiasmi trovandoseli contro.

L’idea che questi All Blacks siano i migliori All Blacks di sempre è ormai abbastanza radicata e si accompagna alla preoccupazione che non riescano ad arrivare alla prossima RWC, quella d’Inghilterra (2015), per via delle defezioni naturali dei grandi vecchi, quei giocatori che passeggiano attorno ai cento caps. Intanto però sono usciti dal Championship con un sei su sei senza precedenti, e nei test hanno infilato tre volte la Francia, tre volte l’Australia, due l’Argentina, due il Sudafrica, una il Giappone e una l’Inghilterra. Il fattore determinante per questo particolare successo sembra essere una concentrazione ritrovata e un’acquisita capacità di soffrire. Anche nelle situazioni di regresso, nei momenti di difficoltà – non molti ultimamente a dirla tutta – dimostrano di non perdere il senso della palla. Non è una banalità questa, quando si parla di rugby “isolano”. Se c’è una cosa che si può rimproverare agli All Blacks delle scorse stagioni, è quella di aver troppe volte sacrificato la concentrazione al gioco spettacolare, lasciando scappare occasioni che sembravano ormai in tasca. Una su tutte la RWC del 2007, soffiata via dalla Francia dell’ogre Chabal.

L’importanza delle regole

Una delle ragioni paradossalmente potrebbe risiedere in quelle regole che nel corso dei più di cent’anni di tradizione sono state aggirate, criticate, contestate e riviste ma ciò non ne inficia la validità nel produrre macchine da guerra. Solo nel 2012, ad esempio, si è avviato il processo di apertura delle frontiere per gli atleti che volessero giocare all’estero e una clausola nello statuto del club prevede che nessuno di loro possa indossare la maglia della massima squadra se non possiede un titolo di studio superiore. I loggionisti li archiviano come accorgimenti figli di un’altra epoca e individuano qui il motivo del razzolare male dei giocatori. È vero, possono essere considerate poco al passo con l’evolversi del professionismo – comunque giovane, nato solo nel 1995 – ma sembra che ora tutto sommato abbiano fatto scattare qualcosa e favorito uno sviluppo sportivo senza precedenti, una concentrazione e devozione che non conosce simili. Si tratta di atleti che non hanno di fronte altro obiettivo se non quello di portare a casa una partita dietro l’altra. Per orgoglio, per abitudine, per stima di se stessi. Al netto degli eccessi e alla lunga, il metodo potrebbe aver dato i suoi frutti se anche Stirling Mortlock – australiano e arcinemico dell’orda nera – ha dichiarato: «sono una macchina, sembra che dal mondiale siano riusciti a salire ancora di livello».

Prenderli uno per uno, così come sono entrati in campo a Londra e altre 40,5 volte a testa prima, può essere utile per capirsi meglio, se non altro a livello umano.

Dovendo iniziare un elenco di giocatori è opportuno andare per ordine. Quello di comparizione in campo, vale a dire dal numero quindici a risalire fino al numero uno. Dall’estremo al pilone sinistro. Perché nel rugby tutto ha un ordine, ognuno ha un compito e la democrazia è costruita in scala gerarchica in modo che chiunque prenda un’iniziativa ne assuma la piena responsabilità in relazione al proprio ruolo – vale a dire in relazione a quanto ci si aspetta da lui – e la paghi da solo se le cose non vanno come dovrebbero.

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