«Non si può salvare un matrimonio dichiarando il divorzio illegale». Lo scriveva Gideon Rachman, in un editoriale sul Financial Times dello scorso 15 ottobre: se qualcosa in Europa deve accadere, che accada con il consenso popolare.
Lo sanno bene, ad esempio, i sudtirolesi che hanno annunciato una sorta di referendum autogestito per l’autodeterminazione dell’Alto Adige. Da inizio settembre a fine novembre, 380mila altoatesini potranno firmare a favore della riunificazione del Tirolo, della creazione di uno Stato libero oppure della permanenza in Italia. Anche se, per ora, non avrà certo un peso tra le carte di Roma. Come la Padania industrializzata e fittizia, almeno per il 55 per cento degli italiani, secondo un sondaggio Swg del 2010.
Eppure, a quasi un anno di distanza gli stoppini che accendono i nazionalismi europei, dal meridione catalano al settentrione scozzese, passando per le Fiandre, pongono lo stesso problema: il nazionalismo può avere una chance in Europa?
In Scozia pare di sì. Il 18 settembre 2014 i cittadini al di là del Vallo di Adriano andranno al voto per rispondere a un’unica chiara domanda: «La Scozia dovrebbe essere un paese indipendente?». I sondaggi dicono che perderanno. Ma, chissà, Edimburgo potrebbe riservare delle sorprese.
Molto più a sud, a Barcellona, l’11 settembre scorso si è festeggiato la Diada, il giorno dell’Indipendenza catalana: una catena umana di 400 chilometri per 1,6 milioni di partecipanti, secondo la Generalitat. E il presidente Artur Mas, a capo della coalizione autonomista Convergència i Unió (Convergenza e Unione), ha ribadito ancora una volta il suo impegno per un referendum sull’autonomia della Catalogna nel 2014. Madrid non vuole concedere l’autorizzazione, ma anche se scendesse a patti per un plebiscito, secondo i sondaggi solo la metà dei catalani vorrebbero davvero staccarsi dalla Spagna.
Le spinte separatiste non si fanno sentire però solo in Scozia o in Catalogna. La vittoria dei nazionalisti fiamminghi di Bart De Wever, alle elezioni locali dello scorso anno, è stato accolta da molti analisti come un avvertimento non solo per il Belgio, ma per l’intera Europa. E il Nieuw Vlaamse Alliantie (Nuova alleanza fiamminga) punta adesso sulle elezioni politiche del 2014 per risultare il primo partito del paese e impedire la formazione di un qualsiasi governo nazionale. Fare previsioni sul risultato è però difficile.
Insomma i rigurgiti nazionalisti innescati dalla crisi economica che ha travolto l’Europa, abbozzano destini incerti. E forse sarà la stessa evoluzione della crisi economica a determinarne il cammino. Di certo però il principio dell’autodeterminazione dei popoli, a volte disprezzato per stupidità campanilistica, a volte ritenuto un sacrosanto diritto, come nel caso del Kosovo – per altro non ancora riconosciuto da Spagna, Grecia, Romania, Slovacchia e Cipro -, arriva malconcio sul tavolo di Bruxelles.
Pochi giorni dopo la Vía catalana, il commissario Ue per la Concorrenza, Joaquin Almunia, in conferenza stampa a Barcellona, lo aveva detto chiaro e tondo: «Se una parte del territorio di uno Stato membro decide di separarsi da tale Stato membro, la parte che si separa non sarà più nell’Unione europea». Ore dopo, da Madrid, Michel Barnier, commissario europeo per il mercato interno, lo confermava: se la Catalogna manterrà questa posizione, dovrà ritenersi fuori dall’Unione europea, perché è quello che dicono i trattati.
Insomma è opinione giuridica che se dovesse nascere un nuovo Stato in Europa, che sia la Catalogna o la Scozia o le Fiandre, dovrebbe affrontare l’intero processo di adesione e assicurarsi l’approvazione unanime di tutti i membri attuali dell’Ue.
Ma non è certo possibile giocare la carta della minaccia dell’uscita europea per mantenere i confini attuali. Né tantomeno è pensabile che i movimenti separatisti possano influenzare l’andamento della politica europea.
Finora i pericoli di una spaccatura dell’Unione o dell’Eurozona sono stati sventati. Perfino le ultime elezioni in Germania hanno ridimensionato le aspettative, buone o cattive a seconda delle visioni, del partito anti euro. L’Afd si è fermato al 4,7 per cento e rimarrà fuori dal Bundestag. Sta di fatto però – e proprio nel momento in cui si voterà anche a Bruxelles – che a partire dal prossimo anno l’Europa potrebbe essere costretta a gestire politicamente e legalmente qualche spinta separatista. Almeno nei seguenti casi:
Catalogna
Lo scorso 11 settembre i catalani scendevano in strada per chiedere l’indipendenza. Il braccio di ferro tra Barcellona e Madrid si è intensificato nel 2006. Lo statuto catalano, che proclamava la Catalogna come «nazione», aveva alimentato le tensioni. Nel luglio 2010, ai piedi della Sagrada Familia, ci fu la prima grande manifestazione: una marea di esteladas (bandiere a strisce rosse e gialle) che ondeggiavano per l’autonomia. «Som una nació, noialtre decidim» (Siamo una nazione, noi decidiamo) è il motto dell’indipendenza. Quest’anno il presidente della Generalitat Artur Mas ha paragonato la Via catalana alla marcia degli afroamericani di Martin Luter King. Poi ha promesso che nel 2014, con o senza appoggio del governo centrale, ci sarà un referendum.
Paesi baschi
A nord della Spagna i Paesi baschi lottano da decenni per l’autonomia. Le prime elezioni dopo l’abbandono della lotta armata da parte dell’Eta – annuncio fatto il 20 ottobre 2011 – sono state una vera lotta intestina tra il Partito nazionalista basco e la sinistra abertzale (dalla lingua euskera, patriota). Alla fine Iñigo Urkullu, a capo dei nazionalisti, ha celebrato la sua vittoria davanti alla stampa nelle elezioni regionali del 2012, seguito dagli indipendentisti di Eh-Bildu. I due partiti controllano complessivamente i due terzi dell’assemblea regionale basca, con una sempre più crescente radicalizzazione nazionalista. Portatori di una cultura e di una lingua millenarie, perseguitati durante il franchismo, i baschi hanno rivendicato l’indipendenza con la politica e i movimenti abertzale da una parte, e con la violenza terrorista di Eta dall’altra.
Corsica
Appartiene alla Francia da oltre duecento anni. Ma dagli anni Sessanta l’isola mediterranea è alle prese con un grande movimento indipendentista. Anche se la maggior parte del movimento condanna la violenza, il Fronte nazionale della liberazione della Corsica ha provocato il caos per molto tempo: negli anni Ottanta e Novanta i corsi furono protagonisti di gravi episodi di violenza contro i politici e la polizia. Nelle elezioni regionali francesi del 2010 i nazionalisti hanno raggiunto il loro miglior risultato: il partito Femu a Corsica, che punta su una piena autonomia, ha ottenuto il 25,9 per cento dei voti, mentre il partito separatista di sinistra Corsica Libera, ha raggiunto il 10 per cento.
Irlanda del Nord
Il conflitto nell’Irlanda del Nord è lungo e complicato. Anche se ufficialmente la zona non è più messa in discussione, le tensioni tra nazionalisti e unionisti continuano, mostrando sempre più differenze inconciliabili. Tant’è che il Sinn Fein, il movimento indipendentista irlandese, vuole realizzare, probabilmente nel 2016, un referendum per decidere se continuare a far parte del Regno Unito o unirsi al resto dell’isola.
Il numero due del partito, Martin McGuinness, ritiene che è il Nord sia pronto per un referendum nel 2016, proprio in coincidenza con il centenario della Rivolta di Pasqua, la ribellione sanguinosa che ha portato alla guerra d’indipendenza irlandese contro il Regno Unito (1919-1921).
Scozia
Il leader dello Scottish national party, Alex Salmond, ha trovato l’accordo con il premier britannico David Cameron riguardo l’indipendenza della Scozia: il 18 settembre 2014 verrà indetto un referendum dove verrà chiesto a tutti gli scozzesi a partire dai 16 anni se separarsi o meno dal Regno Unito. Pare che la grande maggioranza degli scozzesi, però, tenda a voler rimanere unita a Londra, soprattutto per i notevoli costi della separazione che in tempo di crisi non sarebbero sostenibili. Secondo il progetto di Salmond, la Scozia diverrebbe nei fatti una nazione autonoma ma parte del Commonwealth, con governo completamente indipendente pur continuando a riconoscere la regina Elisabetta come capo di Stato.
L’Snp sostiene che le risorse di petrolio nel Mare del Nord, l’industria locale agricola, la pesca e il whisky consentono a una Scozia indipendente di essere prospera in termini economici. Altri partiti di Edimburgo e il governo britannico invece pensano che la secessione farà male alla Scozia e al resto del Regno Unito.
Belgio
Aria di scissione anche in Belgio, un Paese sempre più spaccato tra le Fiandre e il Sud francofono. In realtà un sentimento che si registra fin dal 1830, quando si creò il Regno del Belgio. La trasformazione delle Fiandre in uno stato indipendente e sovrano è l’obiettivo della Nieuw Vlaamse Alliantie (Nuova alleanza fiamminga), il partito che ha trionfato alle ultime elezioni del 2010, dopo la crisi del governo, accanto agli indipendentisti fiamminghi di destra del Vlaams Belang, fautori della separazione dai valloni. Motivazione etno-culturale ed economica, perché spesso le regioni più ricche spingono per sganciarsi dal resto del Paese. Secondo i sondaggi però solo il 30 per cento degli abitanti delle Fiandre vorrebbe una piena indipendenza. Le elezioni politiche del 2014 saranno dunque un banco di prova.
*Autonomismi extra Ue, che ci riguardano da vicino
Repubblica Srpska
Costituita dopo gli accordi di Dayton che hanno messo fine alla guerra in Bosnia nel 1995, la Repubblica Srpska minaccia lo spettro della secessione da anni. È una delle due entità politiche della Bosnia-Erzegovina: Sprska, la serba, e la federazione di Bosnia-Erzegovina, la croata-musulmana. Nonostante ciascuno abbia una parlamento, un governo e dei propri presidenti, gli abitanti della Repubblica Srpska vogliono staccarsi dal paese ed entrare a far parte della Bosnia. Così, questa comunità serba che occupa il 49 per cento del territorio bosniaco da anni chiede un referendum. Che l’Ue tenta puntualmente di rimandare.
Groenlandia
È considerata l’Eldorado del XXI secolo. E anche se vorrebbe, la Groenlandia è ancora lontana anni luce dall’essere sovrana. L’isola è entrata nell’Unione europea, in quanto parte della Danimarca, nel 1973. Nel 1985 ne è uscita fuori, a seguito di un disputa con Bruxelles sui diritti di pesca. Eppure il territorio è ancora molto dipendente dalla Danimarca e quindi dall’Europa. Copenaghen dà alla Groenlandia circa 450 milioni di euro all’anno in sovvenzioni, un importo che comprende più della metà del fabbisogno finanziario del governo. L’economia debole, basata quasi esclusivamente sulle esportazioni di pesce, rende l’autonomia un desiderio quasi utopico, almeno per ora.