Fondi Ue: la sconfitta di un’Italia che pensa ad altro

Le nuove norme e la vittoria di Berlino

Volete i fondi Ue che vi spettano? Fate le riforme chieste dall’Ue e rispettate la disciplina di bilancio europea. Nella gestione dei fondi di coesione Ue – un totale di 325,1 miliardi di euro previsti dal bilancio Ue 2014–20 (di cui 29,2 miliardi per l’Italia, il secondo beneficiario dopo la Polonia) – ha vinto, ancora una volta, l’Europa rigorista. La Germania e i soliti “falchi” del Nord (Olanda, Austria e Finlandia in testa) hanno infatti ottenuto che la nuova normativa, approvata questo mercoledì dal Parlamento Europeo nella plenaria a Strasburgo, contenga la famosa “condizionale macroeconomica”. Una condizionale finora inesistente nel diritto Ue che soprattutto i paesi del Sud Europa avevano cercato di bloccare – e infatti il grosso degli eurodeputati italiani – sia a sinistra che a destra – ha votato contro. Invano, visto che la riforma della politica di coesione è passata con una vasta e solida maggioranza (449 sì, 209 no e 36 astenuti).

La parte più controversa è quella che introduce una chiara condizionalità che rischia di punire proprio le regioni più deboli – e che dunque più urgente bisogno hanno di quei fondi – per eventuali inadempienze del governo nazionale. Come sintetizza una nota della Commissione Europea, in effetti, «i programmi devono essere coerenti con i programmi nazionali di riforma, affrontando le rilevanti riforme identificate nelle raccomandazioni specifiche per paese nel Semestre europeo». Ad esempio, ha spiegato il commissario alle Politiche regionale Johannes Hahn, «riforme per un quadro più favorevole agli investimenti, strategie di trasporto, miglioramento delle gare d’appalto». Tradotto: se non fai le riforme che l’Ue chiede, non avrai i fondi. Più in generale, spiega l’eurodeputata già Pdl e ora del Nuovo Centrodestra Erminia Mazzoni, che era stata relatrice di una relazione per lo scorporo degli investimenti produttivi dal computo del deficit (non recepito nella normativa), il principio della macrocondizionalità economica fa sì che, «in caso di sforamento del tetto del 3% (del Pil, ndr) del deficit da parte di uno Stato, la Commissione Ue è autorizzata a sospendere i pagamenti e gli impegni economici a esso diretti».

Non basta, il 6% delle risorse destinate a ogni Stato (circa 1,8 miliardi di euro per l’Italia) sarà messo da parte e erogato solo se il paese dimostra di raggiungere entro il 2019 gli obiettivi strategici del settennio 2014–2020. Peggio ancora, sottolinea Mazzoni, la normativa prevede «la sospensione degli impegni economici e i pagamenti fino al 50% del totale (dunque circa 15 miliardi di euro circa per l’Italia) del budget assegnato a ogni Stato membro se, al momento di verifica periodica, la Commissione giudichi lontano dagli impegni presi e lo stesso non riesca a recuperare entro 3 mesi».

Una normativa, tuona anche Francesco De Angelis, eurodeputato del Pd e membro della Commissione Sviluppo Regionale dell’Europarlamento, che «colpisce gli interessi propri di quegli Stati e di quelle regioni in cui è più urgente un intervento e un’assunzione di responsabilità da parte dell’Europa, per far ripartire la crescita, l’innovazione e l’occupazione». Il Parlamento europeo ha almeno ottenuto, nel difficilissimo e lunghissimo negoziato con il Consiglio Ue (che rappresenta gli Stati membri), di poter aver voce in capitolo nell’eventuale decisione di sospensione di fondi Ue da parte della Commissione. La quale, peraltro, ha cercato di rassicurare: si tratta di un’extrema ratio, ha detto il commissario Hahn, «nei casi in cui gli Stati membri si rifiutino in modo persistente di rispettare le raccomandazioni economiche (dell’Ue, ndr). Sono fiducioso che non venga usato». Il linea relativamente morbida non condivisa però dagli Stati rigoristi.

Le condizionalità non finiscono qui, ce ne sono altre “buone” che puntano a un uso più efficiente dei fondi Ue – di cui oggettivamente c’è bisogno, visti gli sprechi degli ultimi anni. Così si chiede agli Stati di concentrarsi «su poche priorità di rilevanza Ue», come ricerca e sviluppo e innovazione, sostegno alle piccole e medie imprese, efficienza energetica, lotta alla povertà e alla disoccupazione (quest’ultime soprattutto attraverso l’European Social Fund, forte di 70 miliardi di euro e l’Iniziativa per i giovani con 9 miliardi di euro). Gli Stati e le regioni, inoltre, ha sottolineato Hahn, «dovranno indicare molto chiaramente quali sono gli obiettivi che vogliono raggiungere», in vista di «risultati quantificabili». Questo per poter monitorare con attenzione come i soldi vengono spesi.

Complessivamente, la riforma prevede tre livelli di regioni: quelle meno sviluppate (al di sotto del 75% del Pil medio Ue, per l’Italia Campania, Puglia Calabria, Sicilia e Basilicata, alle quali il governo ha previsto di dedicare circa 20 miliardi); quelle in transizione (più del 75% del pil e meno del 90%, in Italia Abruzzo, Molise e Sardegna, per cui sono previsti circa due miliardi) e infine quelle più sviluppate (sopra il 90%, tutte le altre regioni italiane, per cui Palazzo Chigi prevede circa 7 miliardi).

Twitter: @Jeohlin

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