Per 150.000 italiani è una malattia, per alcuni è una moda, per molti è semplicemente sempre più un business. Si mischiano tante pedine, e di scacchieri diversi, in questa partita. E allora distinguiamo subito: la celiachia è una malattia, l’intolleranza permanente alla gliadina – una proteina del più noto glutine – contenuta nel grano e in molti cereali comuni; la “dieta senza glutine” è invece un semplice stile di alimentazione, adottabile da chiunque senza alcuna prescrizione medica. Ed è la moda del momento. Seguita da tanti e alimentata dalle grandi società del settore, se anche un gigante come Barilla, alla fine, si è deciso a entrare in questo mercato, certificandone di fatto la robusta profittabilità.
Cura e business. Necessità e scelta. Il rischio confusione è elevato. «Ed è ancor più elevato il rischio di perdere, nel prossimo futuro, il sostegno del Servizio sanitario nazionale» dice a Linkiesta Caterina Pilo, direttore generale dell’Associazione Italiana Celiachia. Ma andiamo per ordine. Poiché l’unica cura possibile non è data da farmaci ma da una dieta appropriata, dal 1982 (quando la malattia era davvero definibile “rara” e i pochi alimenti senza glutine costavano carissimi) il Ssn eroga un contributo mensile ai celiaci: 99 euro per le donne, 130 per gli uomini (cifre stabilite dal decreto Veronesi del 2001 e non più rivalutate per l’inflazione), pari a circa il 35% del fabbisogno alimentare (il resto è ovviamente soddisfatto da alimenti per loro natura gluten-free, ossia verdure, frutta, carne, ecc).
Ora, però, il recente Regolamento UE 609 del 2013 (che entrerà in vigore nel 2016) risistema tutta la materia degli “alimenti destinati a fini medici speciali”, abolendo il concetto di alimento “dietetico” (ossia da utilizzare su prescrizione e sotto sorveglianza medica) e sostituendolo con un elenco di “cibi essenziali per alcuni gruppi vulnerabili della popolazione”: tra questi gruppi, a sorpresa, non ci sono i celiaci.
«Così la disciplina dei prodotti senza glutine – prosegue Caterina Pilo – ricade sotto il Regolamento 1169 del 2001 sulle corrette informazioni al consumatore: ma questo è un diritto di tutti, che non esaurisce la tutela per chi soffre di celiachia». È un primo passo, insomma, verso un downgrade della malattia, si direbbe con gergo da valutazione del credito. «Il rischio concreto di diminuzione del livello di tutele trova terreno fertile su due fronti. Il forte aumento dei malati, in primis: oggi in Italia vivono 135.800 celiaci diagnosticati, con crescita del 10% ogni anno (dati del 2011). È una malattia con connotati da iceberg, perché si stima che potrebbero essere 500mila: un’italiano su cento, insomma, sarebbe celiaco. Accertarlo non è semplice, non basta una banale visita: possono volerci anni di esami e controlli. Malati, in secundis, che convivono con soggetti sani che mangiano gluten-free senza motivi accertati, perché ritengono faccia loro bene (non è detto che sia così, peraltro) o perché si accodano a una sorta di “moda”. Questo ingenera confusione, rischia di svilire la malattia: tutti malati, nessun malato, verrebbe da dire parafrasando il famoso detto. E un primo risultato – conclude Pilo – è la nuova regolamentazione europea, che ha un doppio risvolto negativo: rischia di far allentare i controlli (non è solo questione di ingredienti, i prodotti per celiaci vengono preparati con una filiera produttiva totalmente separata da quella per i prodotti normali, per non essere contaminati) e rischia di portare il Ssn a cassare il contributo dal 2016, non essendo più la celiachia nell’elenco delle malattie ex regolamento europeo».
E il mercato? È una torta – senza glutine – che lievita. Perché il bacino comprende, oltre alle due categorie di cui sopra, anche “l’indotto” dei familiari dei celiaci. «Provate voi – ci raccontano da Barilla – a fare colazione con due biscotti diversi, pranzo e cene con due paste diverse, feste e party con due vassoi di dolci diversi. Questi prodotti sono fruibili da tutta la famiglia, a quello puntiamo. Anche perchè come sapore sono sempre meno lontani dall’originale». Vale già 250 milioni di euro (dato 2011, in aumento del 16% rispetto ai 215 del 2010, secondo i dati della Aic, Associazione italiana celiachia) ed è destinata a crescere, questa torta, farcita da un’utenza in espansione e glassata dai prezzi sempre molto alti.
Chi si aspettava che, aumentando il numero di acquirenti, i prezzi sarebbero calati drasticamente, è rimasto finora deluso (per la gioia dei produttori). I costi restano in realtà elevati: quelli anzitutto di ricerca & sviluppo (e la qualità è superiore rispetto ai cibi di 20 anni fa, chiedere a un qualsiasi celiaco per conferma); quelli dei macchinari produttivi, dedicati; quelli dei canali distributivi, ancora al 70% legati alle farmacie, ma con forte aumento della grande distribuzione. In più, aggiungiamoci una domanda anelastica (quella dei malati: chi non lo è può stufarsi quando vuole) e un consumatore che non è stato abituato a spulciare ferocemente i prezzi, sia per il contributo statale, sia per mancanza di alternative. Ma anche questo sta cambiando: coi grandi player che si affacciano sul mercato aumenta infatti il peso della grande distribuzione (in alcune regioni, come la Toscana, siamo al 50%), si aprono sempre più megastore gluten-free che vendono solo questi prodotti, la voglia di concorrenza aumenta e quella di fare cartello diminuisce: insomma i prezzi iniziano, sia pur lentamente, a calare, per il sollievo dei consumatori. In dieci anni, dal 2001 al 2011, sempre secondo Aic, i prezzi sono cresciuti del 17%, con una diminuzione negli ultimi anni proprio per effetto del maggior peso della grande distribuzione.
E ancor di più dovrebbe essere in futuro, specie quando la grande distribuzione prenderà il sopravvento sulle farmacie (canale insostituibile, attenzione: fornisce prestazioni e assistenza ai malati che un supermercato non potrà mai dare). Un futuro per molti versi nebuloso, e non solo per la spada di Damocle della nuova normativa europea. Uno spunto su tutti: poiché la crescita della patologia è legata (anche) alle mutate condizioni alimentari (fino a 50 anni fa c’era meno glutine nei grani, che si modificano con le moderne tecniche di coltivazione), si sta iniziando a lavorare a grani con contenuti di glutine molto ridotto. Sta per iniziare l’era dei gluten-free Ogm?
(ha collaborato Nadia Cavalleri)