GreatFire.org è un gruppo di attivisti che si impegna a monitorare la pressione della censura in Cina. Il loro compito è reso necessario dalla difficoltà stessa che lo motiva. La censura del governo cinese somiglia alla Grande Muraglia: funziona grazie alle lacune più che per le interdizioni esplicite che proibiscono accessi e dichiarazioni. Il Partito non ha mai enunciato il protocollo dei divieti, che distinguono ciò che è legittimo da ciò che è vietato fare e dire sui social media e nella blogosfera; la responsabilità del controllo ricade sulle autorità locali, ma soprattutto sulle amministrazioni delle imprese che gestiscono i servizi internet. La chiusura (anche temporanea) dei server comporta perdite calcolabili in centinaia di migliaia o in milioni di dollari in pubblicità e sponsorizzazioni. La minaccia al patrimonio aziendale si trasforma nel dispositivo di monitoraggio più stringente che si possa immaginare, per lo più anche al di là delle aspettative dell’establishment politico.
Rebecca MacKinnon è una delle esponenti più in vista di GreatFire. A metà 2008, quando era caporedattrice della CNN nella capitale cinese, ha progettato un esperimento per mappare la reazione della censura ai temi più controversi del periodo, dall’AIDS al Tibet. L’analisi è stata condotta con il ricorso ad avatar fittizi, che sono stati attivati per popolare oltre una decina tra i blog più frequentati con un centinaio di post “pericolosi” dal punto di vista della libertà di espressione. I gestori dei servizi di social networking più attenti hanno rimosso circa la metà dei post; quelli più laschi si sono limitati alla soppressione di un solo post. La MacKinnon ha attribuito l’etichetta “Censorship 2.0” ai risultati della sua indagine: la decentralizzazione della censura, e ancor più l’ansia di prevenzione che incombe sulle aziende, non permettono a nessuno di sapere in anticipo quali tra i propri contributi saranno giudicati eversivi e quali invece resteranno accessibili agli altri utenti. I danni sono peggiori di quelli della censura totalitaria, perché se non si possono eseguire previsioni sulla sopravvivenza delle pubblicazioni, per i dissidenti non è nemmeno immaginabile pianificare una campagna di comunicazione.
In questi giorni GreatFire ha dichiarato di aver sbloccato l’accesso al sito cinese della Reuters, sottoposto a censura dal 15 novembre, e a quello del China Digital Times, bandito da Pechino ormai da anni. L’operazione è stata resa possibile con la combinazione di due tattiche: l’impiego di protocolli di crittografia e la collocazione dei contenuti su piattaforme di mirroring. L’azione è di sicuro meritoria, ma la notizia che ha riportato ion questi giorni alla ribalta delle cronache il gruppo di GreatFire è il secondo passaggio di questa iniziativa: la lettera aperta tramite la quale gli attivisti hanno invitato Google a replicare la loro strategia su larga scala, liberando l’intera Rete digitale cinese dal controllo della censura di regime. Il loro invito è stato subito ripreso dal Guardian, che l’ha diffuso il 22 novembre.
Il progetto si organizza in due compiti e dieci giorni di lavoro. Il primo passaggio consiste nel passaggio completo al protocollo di crittografia HTTPS di tutte le interrogazioni postate sul motore di ricerca in versione cinese; il secondo si risolve nell’accoglienza su piattaforme mirroring ospitate da Google per tutti i siti bloccati. In questo modo verrebbero protetti sia i riceratori, sia gli editori di contenuti eversivi. Per Google si tratterebbe di un costo aggiuntivo trascurabile, visto che già ora archivia tutte le pagine indicizzate. In cambio, GreatFire mette una buona parola per il marketing di Mountain View: con questa mossa il motto di Google smetterebbe di essere solo “Don’t be evil”, perché il motore verrebbe assunto per direttissima nel pantheon dei benefattori dell’umanità. Eric Schmidt si è avventurato qualche giorno fa nella previsione che tutte le restrizioni alla libertà di espressione online sono destinate a decadere entro i prossimi dieci anni. Nella lezione tenuta mercoledì 20 novembre alla Johns Hopkins University il presidente esecutivo di Google stava commentando l’insuccesso della sua missione personale nella Corea del Nord, bilanciandola con un pronostico di ottimismo fondato proprio sulle tecnologie di crittografia digitale. Contro la Grande Muraglia della censura cinese, GreatFire gli ricorda che basterebbe un lavoro di dieci giorni, anticipando il lieto fine di questa storia di nove anni e undici mesi. Il silenzio di questi giorni lascia presagire che Schmidt sia un estimatore della suspense tenuta fino all’ultimo respiro, e non apprezzi gli spoiler.
L’attivista che si firma Charlie mostra anche qualche preoccupazione per l’irritazione che il governo cinese potrebbe mostrare per questa iniziativa. I timori però andrebbero minimizzati, dal momento che in passato il regime di Pechino ha già tentato di impedire l’accesso a Google, venendo però costretto a desistere dalle sue intenzioni repressive dall’ondata di proteste seguite alla decisione. Google non si tocca, nemmeno in Cina. Non è chiaro però se Mountain View sia pronta a rinunciare al fatturato pubblicitario del periodo di oscuramento più di quanto lo siano i giganti web locali, come Tencent o Sina Weibo.
Nella sua riflessione su Forbes, Tim Worstall si chiede se sia giusto domandare ad un’impresa privata di infrangere le leggi dei paesi in cui eroga i suoi servizi. Certo, tutti noi riteniamo che l’imposizione della censura sia una pratica abominevole; ma se cambiamo i termini del problema, la questione si disegna cpon tutt’altro profilo. In Germania, in Italia e in Francia, la negazione dell’olocausto e la vendita di reperti nazisti è vietato dalla legge, mentre negli Stati Uniti entrambe queste attività sono legali. Non urterebbe la nostra sensibilità se Google aggirasse le restrizioni normative europee agevolando le pratiche proibite grazie alla protezione della crittografia dei messaggi?
Sulla base di quale criterio dovremmo gradire la sfida online alla censura cinese e ripudiare la libera circolazione delle idee e della paccottiglia antisemita? Non siamo autorizzati a confondere la nostra sensibilità con il diritto naturale: come insegnava Bobbio, è sempre molto problematico invocare un principio di legittimità che non sia depositato in una tradizione scritta e si fondi su un dispositivo istituzionale di vigentazione. Ma una riflessione in più si impone sul mandato politico che viene assegnato a soggetti imprenditoriali come Google. I giganti di Internet non somigliano alle società tradizionali: il viaggio in Corea del Nord di Schmidt, quello in Cina di Zuckerberg, ce lo testimoniano nonostante (o proprio a causa) dei loro fallimenti. Su di loro si sta concentrando una forma non codificata di potere che in passato è stata esercitata dagli editori (giornali, libri, televisione, radio, cinema, musica) e dagli accademici: sono loro adesso a rivestire il ruolo di chi in Occidente fissa lo statuto di quello che si può pensare e di quello che si deve decidere. Per questo i movimenti dei loro rappresentanti sono vissuti quasi come una missione diplomatica ufficiale, l’apertura di un’ambasciata riconosciuta ufficialmente.
L’ingenuità di GreatFire che vede in Google un soggetto intoccabile anche dalla dittatura cinese, e il portatore messianico della libertà di parola oltre la Grande Muraglia, ricade nel “paradosso del dittatore” di Morozov. Ma l’investitura di cui si fanno carico Apple, Facebook, Yahoo!, lo stesso Google, trascende i confini e lo statuto della rete di cui parla Morozov. Il soggetto della discussione non è più Internet, ma soggetti che hanno il potere di trasformare un progetto di comunicazione su pagine elettroniche in un oggetto sociale pubblicamente riconosciuto: di convertire una speculazione soggettiva in un’esistenza obiettiva. Se così fosse davvero, il rapporto tra potere nazionale e potere mediatico andrebbe ripensato alla radice: il caso della censura cinese sarebbe allora un esperimento da laboratorio per conoscere a che punto è la notte dell’istituzione statale.