Il fascino discreto del mostro gigante

Viale dei Giganti

Quella di Ed Kemper non è una storia strana. Dovrebbe esserla, ma non lo è. È la storia di un serial killer, con evidenti disturbi legati a un infanzia difficile, a un rapporto morboso con la madre che sfocia a un certo punto in una catena di omicidi. Non particolarmente inaspettata, avendo inaugurato il flusso a soli quindici anni uccidendo “occasionalmente” i nonni paterni, dopo qualche gatto nell’età della cosiddetta innocenza. 

A rendere particolare questa storia, tristemente comune e decisamente molto americana, è la lucidità con la quale ancora oggi lo stesso Kemper la racconta. È un personaggio piuttosto straordinario – inteso in senso letterale e senza ombra di lode, sia ben chiaro – in grado di fornire un profilo analitico di se stesso, convincente e per nulla giustificatorio. In carcere da quasi quarant’anni e senza speranza di uscire mai, condannato per l’omicidio e lo smembramento di sei autostoppiste tra il 1972 e il 1973, nonché della madre e dalla migliore amica della madre – non dei nonni per cui aveva già scontato quattro anni di ospedale psichiatrico – Kemper pare non abbia fatto altro che leggere, mettendo in moto il suo quoziente intellettivo di 145 – superiore a quello di Einstein, ripete – e lasciando tacere i suoi due metri abbondanti per svariate centinaia di chili che lo hanno sempre fatto sentire come un elefante in una cristalleria. Goffo e sgraziato, un gigante.

Una storia arcinota, che nei decenni ha richiamato su di sé l’attenzione dei media in svariate occasioni: qualche richiesta di grazia, rigettata dai giudici, qualche altra rigettata dall’imputato che con estrema lucidità affermava «mi sono perso la modernità, se uscissi mi annoierei e ucciderei ancora», un paio di richieste di trasferimento e la formazione di diversi fan club. «Ricevo lettere dalle fan, pare ci siano un sacco di donne innamorate di me e pronte a sposarmi. Sono persone tristsi e sole» dichiara Kemper in un’intervista. Una storia, si direbbe in gergo giornalistico, coperta. 

Marc Dugain ha preso in carico l’onere – e anche un po’ d’onore – di raccontare, o meglio romanzare, la storia di Kemper. Di nuovo, ma in maniera diversa. La diversità, oltre che nella lingua, sta nello sguardo del romanziere che, al di là del fin-troppo-scontato giudizio morale, tesse la complessa tela psicologica del protagonista filo per filo attraverso tutti gli avvenimenti, reali o inventati, riportati pari pari o arricchiti, che hanno caratterizzato la sua vita fino alla carcerazione. Non si limita ad approfondire, insomma, e non va a caccia di una spiegazione. Racconta in prima persona, chiamandosi Al Kenner, con lo stesso distacco con il quale si è raccontato tante volte Kemper. Il distacco di chi non si approva e non si giustifica, ma si capisce così bene da restarsi indifferente.

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Un cuscino con la faccia di Ed Kemper

Viale dei giganti (ISBN, 22,50 €) è un bel libro, ma porta con sé un dubbio, per quanto mi riguarda: perché? Perché raccontare questa storia proprio adesso, perché svilupparla a livello narrativo quando il protagonista stesso è stato abbastanza esaustivo in merito da meritarsi alcuni gruppi d’ascolto e svariati biografi in pectore?  

«Normalmente non sono affascinato dai serial killer. Ma Kemper è un caso particolare. Ho avuto la sensazione che, considerata la sua infanzia, il modo in cui sua madre gliene abbia negata una, fosse condannato dall’inizio e l’unico risposta possibile a questo genere di scenario, fosse l’omicidio. Non credo che i serial killer abbiano una predisposizione genetica. Credo che esista un processo psicologico di sopravvivenza legata all’uccisione di altre persone. Quello che mi affascina di Kemper è che lui sapeva tutto questo. Aveva la capacità intellettiva di comprendere le ragioni delle sue pulsioni e questo lo rende unico» è la risposta, un po’ elusiva, che dà lo stesso Dugain.  

«Ho dovuto uccidere mia nonna, altrimenti lei avrebbe ucciso me» è la giustificazione, decisamente sintetica ma sicuramente soddisfacente, che già forniva Kemper all’indomani dei suoi primi delitti. 

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Quindi era già tutto scritto, detto, registrato. Dugain ha fatto certamente un grande lavoro di unificazione delle voci. Quelle che hanno parlato di Kemper e quelle con cui Kemper stesso ha parlato, e ha riportato la storia in maniera lineare, con il merito non indifferente di evitare di soffermarsi sui dettagli truculenti per passare direttamente alle ragioni. Lontano dai fatti e vicino alle pulsioni e alla vita di tutti i giorni, non direi alla normalità perché un’anormalità di base è insita in questa storia. Tra l’odio per la controcultura degli anni ’70 – «in nome dei quale non ho mai ammazzato, però» – e l’attrazione per l’ordine morale e la polizia. 

Insomma, sapevamo tutto. La fascinazione che un personaggio come il co-Ed Killer gioco di parole tra il nome di Kemper e l’espressione “omicida di studentesse” – può esercitare è evidente, basta fare una breve ricerca su YouTube e ascoltarlo parlare, oppure leggere qualcuno dei suoi numerosi scritti per rendersi conto di essere di fronte a un caso più unico che raro. Il merito di Marc Dugain sta senz’altro nella decisione di esportare una storia americana e conferirle una voce europea, oltre che nel aver sistemato – con una buona dose di drammatizzazione – i tasselli mancanti. Per altro in maniera asciutta e piacevole da leggere, al di là della curiosità morbosa in cui sarebbe stato fin troppo facile perdersi. Rimane quella domanda: perché? Cosa ti è venuto in mente? Che non è provocatoria, ma pacificamente legittima.   

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