L’esplosione più comune che caratterizza la vita di una centrale nucleare ha ben poco a che fare con l’atomo: è l’esplosione dei costi il problema più frequentemente sentito dagli investitori. Sono rari i casi in cui un impianto nucleare viene ultimato nei tempi pianificati, ed entro il budget previsto. Ciò dipende dal fatto che raramente due progetti nucleari sono simili: cambiano le regolamentazioni di paese in paese, cambia la potenza richiesta, e soprattutto ogni impianto porta a un avanzamento della tecnica tale da ispirare variazioni anche radicali nelle progettazioni successive.
È per questo che un’azienda statunitense, Babcock & Wilcox, sta sviluppando un progetto per mini-reattori nucleari in moduli standard, tutti della stessa potenza, e in grado di essere installati in diversi paesi con minimi adattamenti del progetto base. Si va oltre: i moduli sarebbero “prefabbricati”, sarebbero costruiti in una fabbrica centralizzata, e poi i componenti sarebbero trasportati tramite camion sul luogo d’installazione. Ogni modulo avrebbe circa 180 megawatt di potenza, e l’azienda pensa di proporre impianti “doppi” che arrivino a 360 megawatt. Il costo dell’opera sarebbe – a parità di energia prodotta – circa la metà rispetto a una centrale tradizionale, con circa 1-2 miliardi di dollari per modulo. Gli impianti avrebbero anche il vantaggio di occupare meno territorio: un reattore tradizionale da 1.400 megawatt occupa 120 ettari circa di superficie, mentre un reattore di nuovo tipo ha bisogno di quindici ettari. La standardizzazione consentirebbe di ridurre i rischi di budget, e garantirebbe l’adozione efficace di misure di sicurezza di nuova generazione.
Tale discussione nucleare, ovviamente, non riguarda l’Italia – troppe carriere politiche si sono bruciate al caldo dell’atomo. Babcock & Wilcox sta sfruttando un dibattito in corso in gran Bretagna, dopo che il governo ha siglato un accordo per la costruzione di due centrali di tipo “EPR”, in grado di coprire il 7% del fabbisogno elettrico nazionale. Londra è disposta a pagare 26 miliardi di dollari per l’installazione, e si è impegnata a far corrispondere all’utente un prezzo elettrico in bolletta pari al doppio rispetto all’attuale. L’azienda americana vorrebbe proporre un’alternativa a buon mercato.
Per di più, ci si rende anche conto in queste settimane di come il futuro rinnovabile sia molto più lontano e difficile da raggiungere di quanto non s’immagini. All’offensiva della francese Areva, che ha portato a casa il contrattone da 26 miliardi, si è opposta la tedesca RWE che vorrebbe installare in mare, dalle parti delle coste del Galles, qualcosa come 240 turbine eoliche da 5 megawatt l’una (con un diametro, signore e signori, di quasi 130 metri).Il problema è che questi mostri marini sono comunque preda della volubilità dei venti (oggi eolo soffia, ma tra dieci minuti no. O forse sì) e sarebbero in grado di produrre circa 400 megawatt di elettricità. È quasi la metà di quanto non riesca a fare una centrale a gas, che ha il vantaggio di non richiedere contributi statali (stiamo parlando di Gran Bretagna).
Certo è che il futuro energetico non avrà il colore verde che tutti ci si aspettano, ma il temuto “fluo” del combustibile nucleare. I paesi del Nord Europa – con esclusione temporanea della Germania – si stanno attrezzando per introdurre una catena industriale nucleare che riesca a garantire rifornimenti stabili di elettricità negli anni a venire. In Finlandia è in costruzione un deposito “definitivo” per scorie nucleari, che raccoglierà combustibile per un secolo a partire dal 2020. Si tratta di una serie di gallerie sotterranee, a profondità di 420 metri sull’isola di Onkalo. Una volta pieno, verrà riempito di cemento e sigillato. È anche questo – almeno secondo i finlandesi – un modo per guardare al futuro.