Tutto parte dalla crisi della Banca Popolare di Puglia e Basilicata (Bppb). Centoquarantasei sportelli in 12 regioni da Milano al quartier generale di Altamura, nel Barese, che per la prima volta nella propria storia (nasce nel 1883 ma sotto questo nome dal ’95 quando da Popolare della Murgia si fonde con quella di Taranto) chiude il bilancio in rosso: ad aprile scorso un utile netto negativo per 125,5 milioni di euro, causato dalle pesanti rettifiche dei crediti (un totale di 144,5 milioni di euro) per la crisi che nel 2012 ha messo in ginocchio famiglie e piccole e medie imprese del territorio (qui edilizia e distretto del salotto che fa capo a Natuzzi) e dalle svalutazioni – su indicazione di Bankitalia (un valore allora di 73,5 milioni) – dell’avviamento dei nuovi sportelli (57,9 milioni complessivi), a partire dai 15 acquistati nel 2009 dal Monte dei Paschi di Siena tra Lombardia, Piemonte e Lazio, e con qualità creditizia poi peggiorata.
Non una novità nel panorama bancario nazionale (tra i casi “minori” vedi Banca Marche poi commissariata) se tutto questo non fosse avvenuto nel pieno di un’ispezione della Vigilanza di Bankitalia che a luglio scorso, dopo che già nel 2010 aveva sanzionato l’ormai vecchia governance con un totale di 574mila euro per carenze nell’organizzazione e nei controlli interni anche con riferimento al profilo della liquidità e nel processo del credito, ha chiesto senza mezzi termini di risolvere i problemi gestionali ancora irrisolti azzerando i vertici – il presidente Pasquale Caso da allora in carica si è dimesso e il nuovo consiglio di amministrazione eletto a settembre scorso dall’ultima assemblea dei soci ha nominato Giuseppe Marrulli, non a caso ex direttore di lungo corso in Via Nazionale -, e soprattutto, tra le varie contromisure, di cercare sul mercato «un partner di elevato standing» con cui stringere un accordo di fusione (o incorporazione).
Non un fatto solo locale poi se la crisi della Bppb non fosse servita a riaccendere di colpo il vecchio sogno di realizzare la più grande banca popolare del Sud dall’unione di più istituti locali – quella ideata dall’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti e oggi di Poste Italiane è tutta un’altra storia – nella testa della Banca popolare di Bari (BpB), nata nel 1960 e da allora in mano alla famiglia Jacobini, dal fondatore Luigi al figlio Marco presidente fino ai nipoti Gianluca e Luigi oggi vicedirettori generali. Il pallino è di Marco, al vertice dal 1989 (parentesi da amministratore delegato tra 2001 e 2011, consigliere dal 1978) e che da allora ha messo a segno una ventina di acquisizioni, dalla Banca agricola commerciale di Deliceto a inizio gestione alla Banca Mediterranea nel 2000 fino alla Cassa di Risparmio di Orvieto nel 2008 (controlla il 73,57%), creando nel 1998 un gruppo bancario dalla fusione della Banca popolare della Penisola Sorrentina e Banca popolare di Calabria e che oggi conta 253 sportelli in 9 regioni, 2.200 dipendenti, circa 10 miliardi di raccolta complessiva e 6,4 miliardi di impieghi (dentro anche Bari Corporate Finance).
Jacobini pensa in grande da tempo, ma dal 2011 lo fa anche con la direzione generale affidata a Vincenzo De Bustis, il banchiere nell’orbita di Massimo D’Alema tornato in Puglia per «nuove sfide» dopo le esperienze in ex Banca del Salento, Mps e Deutsche Bank Italia: con lui, la Popolare di Bari ha partorito il piano industriale 2012-2016 che ha previsto un rafforzamento nel sistema del credito nazionale attraverso nuove acquisizioni e una ricapitalizzazione fino a 500 milioni di euro in più tranche (delega dei soci al cda fino al 2017), ma per metà già conclusa a marzo scorso (244 milioni e nel 2014 programmato aumento di circa 150 milioni).
BpB strizza l’occhio alla Popolare della provincia almeno da un ventennio per patti commerciali, scambi di manager e piani di fusione, ma sia nella fase avanzata del 2000 (allora è l’istituto di Altamura ha contatti pure con la Popolare di Lodi) che in quella analoga del 2010 tutto si è arenato per divergenze su cariche amministrative e benefici dell’operazione, ma pure per storici antagonismi tra territori e famiglie dal dna mercantile. Ora invece sull’ennesima ipotesi di accordo, secondo quanto risulta al Corriere Economia, vi sarebbero addirittura a lavoro gli advisor: Lazard e Barclays per la Popolare di Bari e Société Générale per Bppb.
Sulla carta, il possibile patto tra i due istituti pugliesi porterebbe alla nascita di una banca da circa 3.500 dipendenti, 15 miliardi di raccolta globale, 90mila soci, ma soprattutto 400 sportelli – al Sud più del Banco di Sardegna con 392 dentro il gruppo Banca Popolare dell’Emilia Romagna (Bper) – in un territorio che nell’ultimo anno, secondo il rapporto regionale di Bankitalia del giugno scorso, ne ha persi 46 per il riordino della rete degli istituti con sede fuori regione (da 1.425 a 1.379 unità). Operando però quasi sulla stessa area (BpB non ha sportelli in Piemonte, Friuli, Emilia Romagna e Abruzzo come Bppb), ma in alcune zone della Puglia addirittura sulle stesse strade, è alto il rischio di tagli rilevanti a dipendenti e filiali (in 37 città da Bari a Milano c’è almeno una di entrambe).
Lo denunciano da mesi i sindacati di categoria di Dircredito, Fabi, Fiba Cisl e Fisac-Cgil anche in riferimento ai riflessi del braccio di ferro dell’Abi sul rinnovo del contratto collettivo nazionale e alle vertenze occupazionali aperte lo scorso anno nelle due stesse popolari sullo sfondo della riforma Fornero. Nel dettaglio, i piani di riassetto delle due banche avevano minacciato esuberi per un totale di 430 occupati (stime sindacali), ma dopo lunghe trattative le vicende si sono chiuse in due accordi aziendali che, tra i vari nodi, hanno disciplinato per circa 150 unità complessive l’accesso al fondo di solidarietà e l’esodo incentivato su base volontaria per il personale con requisiti pensionistici.
Ora la tensione sale anche per le cifre circolate nelle ultime settimane (i rumors parlano di una fusione che costerebbe il posto a un totale di circa 1.000 dipendenti), ma che almeno in questa fase non hanno riscontri ufficiali. «I vertici aziendali – fanno sapere le rappresentanze sindacali della Bppb – sottolineano solo l’importanza di traguardare, laddove possibile, un’integrazione sul territorio storico di insediamento delle due realtà sulla base di tre condizioni: tutela dei livelli occupazionali, valorizzazione del socio-azione, difesa del marchio sulle aree di storico insediamento. Le duplicazioni, tante e abnormi, cosa svilupperanno se non tensioni occupazionali? E quali strumenti di raffinata ingegneria pensa il cda di proporre al partner? Con le enormi debolezze strutturali che abbiamo e avendo abdicato all’idea dell’aumento di capitale, quale potere negoziale pensano i nostri vertici di avere nei confronti di una più strutturata BpB? Nella intricata e complessa fitta rete di sovrapposizioni, come rendere credibile e praticabile questo obiettivo?».
Per la Popolare di Puglia e Basilicata le altre opzioni sarebbero un patto con altre banche o uno «stand-alone» con rafforzamento. Come spiegato dagli ex amministratori nella relazione al bilancio 2012 chiuso con la maxiperdita – patrimonio contabile giù di oltre il 30%, dai 376 milioni del 2011 a 262, raccolta globale dell’1,1% a 6,1 miliardi di euro e impieghi dell’8,8% da 3,7 miliardi a 3,4 – all’istituto di Marrulli servono almeno 2 milioni di euro per riportare il rapporto tra il patrimonio base e gli impieghi ponderati per il rischio (Tier 1 ratio) sulla soglia minima del 7% come indicato per l’istituto dalla Vigilanza e che nell’ultimo esercizio è sceso al 6,95% dall’8,29% del 2011 (Total capital ratio all’11,10% dal 13,06% del 2011 con un limite minimo del 10%). In ogni modo, come ricordato anche dai sindacati, il nuovo cda potrebbe esercitare la delega quinquennale mai utilizzata nell’ultima gestione finita sott’accusa – nell’ultimo triennio il valore dell’azione è scesa da 9,67 euro a 6,56 – per collocare uno o più aumenti di capitale fino a 150 milioni di euro come concesso proprio nel 2010 dall’assemblea dei soci (scade il 20 novembre 2015).
Un nodo che in provincia continua ad alimentare dubbi e malumori. «Mai nessuno, cda, direzione generale e commerciale – sottolineano i sindacati – si è preoccupato di verificare effettivamente la percorribilità di un aumento di capitale insistendo su quei soci-investitori che abbiamo seria difficoltà ad immaginare completamente estinti (nel 2012 aumentati di 245 unità, da 29.726 del 2011 a 29.971, ndr) pur in una crisi davvero dura. Oggi – aggiungono – dopo mesi di irresponsabile attesa, dopo circa un anno vissuto pericolosamente, i nostri vertici si limitano a dire, per giustificare ex post l’ineluttabile aggregazione, che un aumento di capitale è di difficile attuazione, dimostrando e chiedendo contestualmente “di più” quanto poco hanno creduto in un reale rilancio dell’azienda».
Da Bari invece Jacobini spinge perché i rispettivi cda diano al più presto l’ok al progetto: l’obiettivo è calcolare le basi economiche e finanziarie della partita sulle rispettive relazioni semestrali, avviarne il processo dall’1 gennaio 2014 e concludere tutto entro l’estate prossima una volta esaminato l’intero piano industriale e ottenuta l’autorizzazione di Bankitalia. Nell’ultimo bilancio ha visto più che dimezzato l’utile d’esercizio, da 14,6 milioni di euro del 2011 a 5,3 milioni per le rettifiche dei crediti deteriorati pari a 94,6 milioni di euro (38,3 milioni nel 2011) a seguito anche qui di un’ispezione della Vigilanza avviata a gennaio scorso. L’istituto, con un patrimonio netto di 787,4 milioni (in rialzo del 2,9% sul 2011) e un coefficiente di solvibilità totale del 15,7% (di cui l’11,2% di qualità primaria, Tier 1), ha visto calare anche la raccolta complessiva del 2,1% (da 8,9 miliardi del 2011 a 8,7) per il passaggio di giacenze di enti pubblici nella tesoreria accentrata del Tesoro, anche se nonostante la crisi ha portato gli impieghi a 5,5 miliardi (+7,9% sul 2011) e il numero dei soci a circa 58mila (da 50.653 del 2011 a 57.486).
In Bppb, però, secondo quanto riferito da fonti bancarie a Linkiesta, la trattativa che va avanti da mesi con Bari – tra le varie ipotesi vi sarebbe quella che porterebbe nel nuovo soggetto due componenti dell’attuale governance -, sarebbe finita in stand-by col cda del 25 ottobre scorso da cui però non sarebbero emersi dettagli o riferimenti ai piani alterativi a breve termine. Il profondo rosso però, secondo fonti informate, sarebbe servito a stuzzicare l’attenzione anche di altri quattro gruppi bancari del Nord in qualche modo alla finestra per cogliere le occasioni del mercato o interessati ad espandersi al Sud con modi e tempi ancora da tutti da valutare. Contatti, dicono, vi sarebbero stati in qualche modo con Bper (controlla Popolare del Mezzogiorno da 116 sportelli al Sud di cui 37 in Puglia), Popolare di Vicenza (uno sportello a Bari), Credito Valtellinese (nel Meridione col Credito Siciliano da 135 sportelli), e non da ultimo Veneto Banca.
Quest’ultima ha il 70,4% di Bancapulia (105 filiali tra Centro e Mezzogiorno di cui 9 dal Barese al Tarantino) il cui vicepresidente Errico Ronzo è l’ex direttore generale della stessa Popolare di Puglia e Basilicata in carica dal 1995 all’estate 2012 – dopo le dimissioni per ragioni personali Bppb ha nominato Alessandro Maria Piozzi, ex Unicredit, Capitalia e Banca Popolare di Vicenza -, tra coloro cioè che negli anni hanno valutato in qualche maniera l’ipotesi delle nozze proprio con la Popolare di Bari, tra gli sponsor delle iniziative di espansione commerciale poi finite sotto l’occhio della Vigilanza e, non da ultimo, candidato nell’ultima assemblea dei soci di settembre scorso per il nuovo corso indicato da Palazzo Koch (ha poi rinunciato).
Chi la spunterà alla fine? Venti del Nord a parte, non è da escludere che possa spuntare pure Banca Popolare Pugliese, l’altra popolare della regione con sede a Parabita, nel Leccese, citata già nell’ipotesi di fusione del 2010 dallo stesso Jacobini a stretto contatto con la Bppb fino a quell’anno sotto il «presidentissimo» e nemico storico Raffaele D’Ecclesiis poi scomparso (43 anni di amministrazione, di cui 26 al vertice). Ma se per Bppb finora non ci sarebbero altre trattative, la Popolare di Bari avrebbe in canna altri due colpi anche per l’altro obiettivo del piano industriale di De Bustis: salire a 100mila soci entro il 2016.
In Abruzzo, secondo quanto riferito in primis dal governatore Gianni Chiodi durante una conferenza stampa del 31 ottobre scorso su misure anticrisi della Regione, sarebbe già cosa fatta l’acquisizione della Banca Tercas di Teramo (col controllo di Banca Caripe un gruppo da 5,8 miliardi di raccolta e impieghi per 4,4 a fine 2011, 165 sportelli e 1.225 dipendenti) commissariata dal Tesoro dal 30 aprile 2012 su proposta di Bankitalia per «gravi irregolarità e violazioni normative» anche «a seguito del coinvolgimento di Tercas in un procedimento penale della Procura di Roma relativo al fallimento di un gruppo immobiliare», la Di.Ma Costruzioni dell’imprenditore capitolino Raffaele Di Mario. L’«operazione di ricapitalizzazione» con BpB è confermata dalla Fondazione della Provincia di Teramo, azionista di maggioranza per il 65%.
In Umbria invece l’interesse sarebbe per la Banca Popolare di Spoleto (4,1 miliardi di raccolta, impieghi per 2,9, 100 sportelli e 768 dipendenti) commissariata dall’8 febbraio scorso dopo «le negative risultanze degli accertamenti ispettivi» di Bankitalia. Qui chi dovrà scegliere «i potenziali investitori nel capitale della banca e della cooperativa» Spoleto Crediti e Servizi, socio di maggioranza per il 51% (Mps ha il 26%) e in amministrazione straordinaria, è la stessa Lazard che studia il concambio azionario per la superpopolare pugliese. Per i tre sogni di Jacobini in ogni caso i tempi sono strettissimi, così per la Popolare di Puglia e Basilicata che tenta di non finire di nuovo tra lacrime e sangue, dipendenti compresi.