Insegnanti di sostegno “per caso” e senza competenze

Scuola precaria

La scuola è cominciata da qualche mese per tutti. Sia per i ragazzi definiti con una brutta parola normodotati, sia per quelli che presentano deficit cognitivi o dell’apprendimento. E che quindi hanno bisogno del cosiddetto “insegnante di sostegno”, con l’obiettivo – come previsto dalla legge 104 del 1992 che ha abolito le scuole speciali – di favorire l’integrazione scolastica. Succede però che i più fortunati di loro si siano trovati dietro la cattedra insegnanti di sostegno veri e propri, che cioè hanno studiato per essere tali. Mentre ad altri sono capitati professori che potremmo chiamare “generici”. Ragazzi – il più delle volte molto giovani e molto precari – laureati in lettere, filosofia o storia, e aspiranti professori, che si trovano a relazionarsi dal nulla con studenti disabili, con sindrome di Down, autistici o che presentano deficit cognitivo-comportamentali. Senza aver mai fatto un esame universitario, anche solo di pochi crediti, in materia.

Come Paolo (nome di fantasia), 29 anni, che alla partenza dell’anno scolastico si è ritrovato improvvisamente nelle vesti di insegnante di sostegno per un ragazzo autistico alle prese con il primo anno della scuola superiore. La chiamata è arrivata senza preavviso. Prendere o lasciare, come spesso accade in questo mondo. «Durante il mese di settembre», racconta, «proprio mentre mi stavo riprendendo dall’esperienza del Tfa, il tirocinio formativo attivo, ricevo una telefonata dalla segreteria di una scuola a più di mille chilometri di distanza dalla mia città. Vengo convocato. Chiamata annuale, fino alla fine di giugno». La cosa è del tutto inaspettata. «Anche perché si tratta di una chiamata per il sostegno e io non sono abilitato a fare l’insegnante di sostegno». Naturalmente, per chi aspetta da anni la fatidica chiamata, c’è poco da pensare. «E accetto immediatamente. Con un sistema del genere poco deve importare la partenza in fretta e furia, il cambio di abitudini, l’abbandono della propria casa, dei propri impegni e delle proprie passioni, non retribuite. C’è da lavorare, sentiti un miracolato e parti».

Sì, ma qualcosa a Paolo non torna. «Io voglio insegnare e ho la presunzione di credere di essere anche portato per l’insegnamento, ma come mai questa chiamata per il sostegno?». La risposta alla domanda di Paolo si trova nelle spiegazioni fornite dal ministero dell’Istruzione. «Il reclutamento dei docenti di sostegno avviene come per la copertura dei posti comuni», rispondono dalla segreteria. E cioè: «Per gli insegnanti a tempo indeterminato, il 50% dei posti autorizzati dalle graduatorie a esaurimento e l’ulteriore 50% dalle graduatorie di concorso. Per gli insegnanti a tempo determinato, dalle graduatorie a esaurimento per le nomine annuali e per le nomine fino al 30 giugno. Una volta esaurite tali graduatorie, per mancanza di aspiranti i posti eventualmente residuati vengono coperti con nomine da graduatorie di istituto». 

L’ordine di “chiamata”, quindi, è questo: si scorrono in primis «gli elenchi dei docenti specializzati sul sostegno delle graduatorie di istituto di prima, seconda e terza fascia della scuola», poi «gli elenchi degli specializzati delle graduatorie d’istituto di tutta la provincia in ordine di vincitori ed età, le domande di messa a disposizione degli specializzati non inclusi in alcuna graduatoria», infine «le graduatorie di istituto di posto comune» (la normativa di riferimento è la legge n. 124/99 e il regolamento delle supplenze DM n. 131/ 2007 art. 3, c. 3; art. 4, c. 1 e art.6 ). «Se nella scuola non è stata ancora completata la procedura per l’utilizzo delle domande di messa a disposizione degli specializzati non inclusi in alcuna graduatoria, le supplenze vanno comunque conferite a titolo definitivo».

Esposta la norma, trovato il problema. A fare gli insegnanti di sostegno finiscono quindi anche quelli che non hanno studiato per essere tali. «Fare l’insegnante di sostegno significa essere di supporto a ragazzi che hanno più o meno problemi marcati e deficit nell’apprendimento. Significa relazionarsi con ragazzi che all’età di 15 anni non sanno ancora leggere e scrivere, ragazzi con la sindrome di Down o affetti da autismo», ricorda Paolo dopo il primo mese nella nuova scuola. «Significa mettere mano a risorse e competenze specifiche che non possono essere lasciate al caso o alla sensibilità e al carattere del singolo. Durante il mio percorso di studi ho fatto un solo esame di pedagogia e un solo esame di psicologia, non ho la più pallida idea di che cosa significa dal punto di vista relazionale, cognitivo o affettivo avere l’Asperger. Eppure ora mi ritrovo a dover immaginare possibili strategie vincenti per casi di questo tipo. Dall’oggi al domani».

Lo conferma anche Donata Vivanti, vicepresidente dello European Disability Forum e madre di due gemelli autistici, da tempo impegnata nelle lotte per l’inclusione sociale delle persone disabili. «La normativa italiana assicura il sostegno necessario agli alunni con disabilità in termini quantitativi», spiega. «So che molti genitori fanno ricorsi per ottenere più ore di sostegno, ma credo sia un’illusione: anche se i miei figli hanno sempre avuto un sostegno individuale per l’intero orario scolastico, l’esperienza scolastica dei nostri figli non è stata positiva né in termini di apprendimento né in termini di inclusione. Servirebbero maggiori competenze, sia degli insegnanti di sostegno che curricolari, e più continuità didattica. Non dovrebbe essere consentito a un insegnante di utilizzare il sostegno per fare punteggio e facilitare il rientro come insegnante di classe». D’altronde, ammette, è un problema più diffuso in Italia: «Anteporre nei servizi gli interessi dei lavoratori, in questo caso degli insegnanti, a quelli degli utenti. Nessuna norma potrà migliorare sostanzialmente l’inclusione degli alunni con disabilità finché le nomine degli insegnanti di sostegno verranno fatte sulla base di graduatorie che tengono in minimo conto competenze e meriti. Mancano insegnanti di sostegno specializzati, e anche i pochi specializzati, di autismo sanno poco o nulla». Servono competenze, insomma: «Chi confida nell’amore dell’insegnante invece che nelle competenze resterà deluso». Ma «un iter formativo più serio incontra le resistenze delle rappresentanze sindacali dei docenti con la motivazione che rappresenterebbe un ritorno alle scuole speciali».

«Fare l’insegnante di sostegno significa trovarsi in una condizione in cui non conta solo quanta conoscenza tu abbia per insegnare, come nel mio caso, storia e filosofia», conferma Paolo. «Non conta la quantità di buon senso, pazienza e buone intenzioni che tu possa avere, ma contano tutta una serie di altre conoscenze e strategie che fanno parte di specifici percorsi di studio. Io potrei anche essere impeccabile e chiarissimo nell’esposizione di Hegel ma del tutto incapace di elaborare percorsi didattici efficaci per l’apprendimento dell’italiano a 15 anni. E questo perché, semplicemente, non ho studiato per far questo. Le mie competenze non sono state formate in questa direzione. Ma allora perché sono stato comunque chiamato?», si chiede.

A guardare le normative straniere, però, gli altri Paesi non sono messi meglio. «Le normative di altri Paesi sono ovviamente molto diverse fra loro», dice Donata Vivanti«Diciamo pure che nessuna, a mia conoscenza, è favorevole all’inclusione scolastica come quella italiana. Alcuni Paesi negli ultimi anni hanno adottato normative inclusive con la chiusura delle scuole speciali, come nel caso del Portogallo, dove tuttavia la pur buona legge è in parte vanificata dalla mancata copertura finanziaria cosicché non ci sono abbastanza insegnanti di sostegno per tutte le scuole. In altri Paesi, come la Francia, qualche passo avanti verso l’inclusione è stato fatto, ma la normativa attuale, pur sostenendo il diritto di ogni alunno di accedere alla scuola “normale”, lascia spazio alle eccezioni, ammette la definizione di “ineducabilità ” e lascia quindi spazio al permanere delle scuole speciali. In altri Paesi, come la Danimarca, la sperimentazione dell’inclusione scolastica è fallita invece per l’opposizione delle famiglie degli studenti senza disabilità, che temevano di vedere penalizzati i propri figli. E si è ritornati ad una normativa favorevole alle scuole speciali».

LEGGI L’INTERVISTA COMPLETA A DONATA VIVANTI, VICEPRESIDENTE DELLO EUROPEAN DISABILITY FORUM

Twitter @lidiabaratta

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