Investimenti, il deficit italiano è la credibilità

Verso Expo 2015

Le infrastrutture costano miliardi, i governi hanno finito i soldi. Risultato: il divario tra la domanda di nuove strade, autostrade, ponti e ferrovie e gli investimenti effettivi si assesta tra 1.000 e 1.500 miliardi di dollari a livello globale. C’è di più: la spesa in opere pubbliche toccherà i 4mila miliardi di dollari l’anno da qui al 2030. I calcoli, che Linkiesta pubblica in esclusiva, sono di The Boston Consulting Group.

Troppo spesso lo strumento della finanza di progetto è stato utilizzato, almeno in Italia, come escamotage per aggirare i vincoli stringenti del patto di stabilità in un’ottica di medio periodo e senza una regia condivisa a livello centrale. Un esempio tipico è la Pedemontana, l’arteria che collega idealmente gli aeroporti di Milano Malpensa e Bergamo Orio al Serio: i costi sono saliti, le banche hanno difficoltà a finanziarla, e a metterci una pezza è sempre pantalone, in questo caso tramite il principale azionista Serravalle, concessionaria controllata dalla Provincia di Milano. 

Gli economisti spiegano che le opere pubbliche sono per loro natura ad alta intensità di lavoro, e dunque politicamente assai spendibili. Peccato che al contempo necessitino di elevate risorse. Paradossalmente, spiega Marco Airoldi, senior partner di Bcg e autore dello studio, quest’ultimo è il minore dei problemi: «Se vogliamo attrarre gli investitori internazionali bisogna mettersi nella prospettiva di qualcuno che va al supermercato e sceglie il prodotto migliore, in questo caso l’Italia». Il vero tema, insomma, è un altro: come si fa ad essere attraenti agli occhi di chi vorrebbe investire ma non si fida di noi? Come detto, la liquidità c’è: i fondi pensione, le compagnie assicurative e i fondi sovrani detengono rispettivamente asset pari a 22mila, 19mila e 4mila miliardi di dollari (dati 2010). 

I lavori infrastrutturali possono durare 30 o 40 anni, così come le concessioni. Un tempo sufficiente a vedere l’avvicendamento di oltre 7 esecutivi. Eppure, dopo la fuga di capitali della primavera 2011 – prodromica alla crisi sovrana dell’estate 2011 – l’Italia rappresenta un’occasione conveniente perché il mercato è sottovalutato. Ciò nonostante, gli investimenti languono. Perché? «Nel mondo alcuni Paesi denaro attraggono ingenti capitali, ma a tre condizioni: 1) regole certe, 2) processi trasparenti e standardizzati 3) tappe di esecuzione del progetto definite con chiarezza», osserva Airoldi. 

Come sosteneva l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti, se in giro ci sono delle best practice perché non fare un bel copia-incolla? «In Paesi dove le infrastrutture hanno successo come in Canada, Australia e Cile e in altri che si stanno affacciando ora sul mercato come la Colombia, il pubblico ha creato dei presidi fissi sovraministeriali a cui è deputato il coordinamento del riordino normativo, l’assistenza tecnica e l’attività di promozione e marketing», nota ancora Airoldi che oggi pomeriggio nell’ambito del primo convegno annuale dell’Osservatorio Partnership Pubblico Privato dell’Università Bocconi di Milano presenterà alcune proposte per incentivare lo sviluppo delle partnership tra Stato e privati (PPP) anche nel nostro Paese. 

Insomma, tutto ciò necessita di competenze per le quali le amministrazioni italiane, soprattutto locali, non sono attrezzate. Per questo l’importante è che tali presidi, nell’idea di Bcg, siano si parte della Pa ma al contempo specchio delle scelte di politica industriale.

L’altra funzione importante deputata ai presidi specializzati è la fase di raccolta dati per individuare le criticità e raddrizzare la barra di conseguenza nelle iniziative future. Ad esempio: tenendo conto delle perplessità espresse dai siciliani e dai calabresi – meglio utilizzare le risorse per rafforzare il trasporto locale – di un’opera come il ponte sullo Stretto di Messina, che costerà centinaia di milioni di euro in penali per la mancata realizzazione, se ne sarebbe mai parlato?

L’Italia, Paese in cui le risorse pubbliche scarse non lasciano ampi margini di manovra, fornisce inoltre due esempi di utilizzo razionale delle infrastrutture esistenti. Senza cioè impegnare i soldi del contribuente in progetti dai ritorni completamente aleatori. Il primo è l’Aeroporto di Roma: per evitare il congestionamento delle piste nelle ore di punta sono state diversificate le tariffe, per fascia oraria e per dimensioni dell’aeromobile, aumentando in questo modo la capacità dello scalo. Il secondo è rappresentato dai sistemi elettronici di pagamento dei pedaggi autostradali e dai tutor – curiosamente un settore dove siamo all’avanguardia – due sistemi per regolare il traffico e diminuire gli incidenti e l’inquinamento.

Quando invece i progetti servono davvero, entra in gioco un altro fattore, che Airoldi sintetizza così: «Una forte capacità negoziale e di controllo da parte del pubblico, per trovare una sintesi tra interessi inevitabilmente divergenti». Caso pratico da copiaincollare: in Colombia una legge impone di indire una nuova asta se i costi sopportati dal governo aumentano in misura superiore del 30% rispetto agli accordi siglati con il raggruppamento d’imprese vincitore dell’appalto che realizzerà l’infrastruttura.

I capitali nel mondo non mancano, ma «se non offro un buon gelato la gente non lo compra». Produrne uno buono significa intercettare i fondi per colmare parte di quei 1.500 miliardi di domanda potenziale. Creando nuovi posti di lavoro. In un Paese il cui tasso di disoccupazione è salito al record del 12,5%, non è poco.

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