RugbyItalia-Australia: proviamoci, ora, a parlare di sport

Test Match 2013

Esistono vari livelli di onestà, nello sport, ed è una cosa che col fair play, con il tifo, con l’entusiasmo non ha niente a che vedere. Esistono vari livelli di onestà, e non vuol dire che esistano sport onesti o disonesti, sport buoni e sport malvagi. È solo che alcuni sport vengono percepiti diversamente da altri, e finiscono per essere confusi con qualcosa che non è sport, non è fair play, non è tifo. È solo entusiasmo, mascherato da stile di vita, da filosofia del gioco, che non ha niente a che vedere con ciò che nello sport è naturale, spontaneo e sacrosanto: l’agonismo.

Ora, il rugby è uno sport, questo è un assioma incontestabile, e come tale si nutre di agonismo e si traduce in adrenalina, grandi gioie e incazzature nere. È normale. In nessun caso – salvo nella pratica giovanile, dove l’accanimento agonistico dei genitori dovrebbe essere punito corporalmente dai figli stessi – un tifoso sano di mente gioirebbe in nome di una sportività deviata, nel vedere la propria squadra che gioca una partita pessima e si fa portare via dagli avversari per 50 a 20, senza, sostanzialmente, reagire. Nessun tifoso sano di mente attribuirebbe agli ultimi sei – o ai primi dieci – minuti della suddetta partita alcuna importanza, trovandosi nella consapevolezza di tifare una squadra non impreparata, ma completamente sguarnita di fronte a un uragano verde-oro. Se poi la squadra è la nazionale e la partita si gioca con una palla ovale, peggio che andare di notte.

Non voglio dire che si debba attribuire allo sport un’importanza smisurata rispetto a quelli che sono i problemi della vita, né che non si possa amare una squadra che perde, men che meno odiare gli avversari che vincono. Penso che la critica – questa l’onestà sportiva – sia necessaria alla crescita, soprattutto se la squadra deve mettersi a confronto con realtà di carriera relativamente più lunga, più esperte in campo, meglio equipaggiate e decisamente più severe con se stesse. In sostanza: se i tifosi, i giornalisti, gli opinionisti da bar, gli appassionati e quelli che non ci capiscono nulla ma vogliono dire la loro, non bastonano la nazionale quando perde, è molto difficile che questa vinca mai. Il rugby è uno sport eccezionale, «come il pugilato, ma con uno scopo» recita uno dei centinaia di detti che gli girano intorno e che dovremmo cominciare a smettere di citare. È una pratica in grado di congiungere vari livelli di umanità – e lo dico da acceso contestatore della sua “beatificazione” – nell’obbiettivo comune di portare una palla oltre una linea, in grado di sviluppare la tattica e la forza fisica, ma senza far pesare l’una sull’altra, e di mantenere alto il livello di aplomb nelle situazioni più sporche e degradanti immaginabili. Purtroppo, in Italia, è stato sempre abituato male, scivolando in un groviglio di luoghi comuni recitati come mantra, convinzioni buoniste mescolate a saggezza pseudo-religiosa che portano ancora oggi i commentatori di La7 a preferire alla cronaca di quello che sta succedendo in campo una serie di frasi pescate a caso nel campionario da cui proviene l’odiosissima «vince la sportività».

È probabilmente giunto il momento, e per il rugby italiano è un momento molto importante, di smetterla di nascondersi dietro le frasi fatte e di ammettere che, al netto delle dichiarazioni affrettate e delle divagazioni storiche, l’Italia di sabato scorso all’Olimpico è stata una delusione. È un’ammenda da fare pubblicamente di fronte ai detrattori del rugby, non per dichiarare sconfitta ma per dimostrare di essere finalmente arrivati al punto in cui questo può essere trattato come uno sport. Non è più il tempo di rastrellare tifosi e appassionati, di legare gli eventi come il Sei Nazioni a leggende da pub, di spiegare passo per passo le regole a un pubblico acerbo, di inventare il folklore per indorare la pillola agli amanti del calcio, di scrivere racconti ispirati. È il tempo di criticare le disfatte e gioire alle vittorie, e se le vittorie sono poche allora abbiamo il dovere morale di arrabbiarci e sostenere le nostre teorie di tecnici da divano, perché lo merita Brunel come Parisse, che nel primo test match di questa stagione aveva lo sguardo di chi ha visto l’abisso e invece era solo una manica di australiani sicuri di sé.

Venendo alla pratica: quello che si è presentato di fronte agli occhi dei tifosi di Torino lo scorso sabato è uno scenario piuttosto tipico per la nazionale – non l’Italia del rugby, perché di questo stiamo parlando. L’Australia schiera la formazione del contegno e parte in sordina, i nostri partono in quarta e cominciano a bruciare energie. Castrogiovanni placca come un ossesso in barba alle sue riserve di fiato, Di Bernardo trova i pali e con grazia ostentata porta a casa i primi tre punti, McLean sgroppa alla fine di uno scambio molto bello e segna una gran marcatura, sollevando un boato che molti conoscono ma pochi hanno imparato a distinguere come il suono dell’entusiasmo precoce. Così i primi sedici minuti scorrono con negli occhi la speranza della rivalsa, complice un calcio sbagliato di Quade Cooper, al suono delle trombe di un Sei Nazioni già roseo e di un mondiale 2015 facile come bere un bicchier d’acqua – questo è quello che passa per la testa all’aficionado tipico, Brunel e soci sanno benissimo che le cose sono ben più complicate. Solo che al sedicesimo del primo tempo, mentre la mischia ha già smesso di scattare e corricchia, Sarti si dimentica di come ci si schiera all’ala e un Ben Mowen galavanizzato dai baffi del Movember segna la prima meta di una lunga serie. Da qui più nulla, i punti scorrono sul tabellone senza che nessun azzurro trovi la forza per reagire, Parisse si butta un paio di volte in un tentativo disperato di sfondamento e ogni volta che gli australiani aprono il pallone ne saltano quattro, lasciando la difesa azzurra a domandarsi chi gliel’ha fatto fare di scendere in campo. Kuridrani ne segna una, Cummins un’altra, Di Bernardo sbaglia e si chiude il primo tempo su 19-10.

Nel secondo tempo gli australiani sembrano montati sulla stecca del biliardino, mentre l’Italia si muove abbastanza alla cieca. Il fiato comincia a mancare, Brunel sostituisce tutti ma non basta. Non c’è più niente in campo se non uno splendido rugby-champagne giallo e verde. Ora, l’onestà sportiva, la quintessenza della purezza di opinione sta nell’ammettere – a questo punto ma poteva essere molto tempo fa – che quando il punteggio ha toccato il 50-15 ha cominciato ad essere molto più esaltante guardare l’Australia continuare a segnare, piuttosto che Cittadini agonizzare tre centimetri oltre la linea di meta avversaria per morsicare via cinque punti da un complessivo ridicolo, che Allan non sarebbe stato in grado di trasformare. È stato molto meglio vedere Ashley Cooper prendere un passaggio teso, quel genio di Leali’ifano sgusciare via dai buchi nella linea azzurra, Moore e Tomane intendersi senza guardarsi e senza smettere di galoppare, piuttosto che un agglomerato di omaccioni corpulenti e sfiancati che cercano di rotolare scomposti mezzo metro più in là – senza mai riuscirci – giocando una cosa molto più vicina all’idea balzana di Webb Ellis che al rugby moderno.

I nostri segnano di nuovo a pochi secondi dalla fine – così come rischiano di prendere un’ultima meta a tempo scaduto – e tutti gli onesti dell’Olimpico avvertono chiaramente un alito di commento buonista soffiare freddo nel collo. Ecco l’Italia che non cede, l’Italia che cerca sempre la meta, anche quando il punteggio è definito. È vero, lo spirito agonistico sta anche nel non rassegnarsi a un risultato ormai fatto, ma troppo spesso nel rugby questo si confonde con la disperazione, con un orgoglio malsano di ringhiare per non piangere e con il conseguente giustificare una disfatta con la scusa della “sconfitta onorevole”. Una sconfitta è una sconfitta, e contiene una colpa, senza la consapevolezza di questa colpa non può esistere miglioramento. Per fortuna – contrariamente ai tifosi sofisti – i nostri giocatori lo sanno, ed è per questo che Sergio guarda l’abisso.

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