Google ha da poco risolto alcune questioni legali che pendevano su Google Books, il discusso progetto di Mountain View che si pone il fine di digitalizzare tutti i libri del mondo. Il 14 novembre a New York un giudice federale ha giudicato che la monumentale opera di digitalizzazione non viola le leggi sul copyright, poiché l’utilizzo dei libri è un esempio legittimo di fair use.
Google Books è un servizio che permette di ricercare termini chiave all’interno dei libri che ha scannerizzato e convertito in testo comprensibile alla macchina attraverso avanzate tecnologie di riconoscimento ottico dei caratteri tipografici. Il progetto Google Books nasce nel 2004 in partnership con la biblioteca pubblica di New York, la biblioteca del Congresso e alcuni enti universitari di prim’ordine come Stanford e Harvard. Nell’aprile di quest’anno è stata raggiunta la notevole cifra di 30 milioni di libri scannerizzati. Google ha reso noto che secondo i suoi calcoli esistono sul pianeta circa 130 milioni di libri unici e che è sua intenzione digitalizzarne la gran parte entro la fine del decennio.
Nel settembre del 2005, l’Associazione statunitense degli autori (Authors Guild) cita in giudizio Google tramite una class action con l’accusa che il progetto viola il diritto d’autore. Alcuni dei libri scannerizzati, e quindi copiati, da Google sono infatti coperti da copyright e per essi non è stata richiesta nessuna autorizzazione ai detentori dei diritti, che sono venuti a conoscenza del progetto a cose fatte. Il giudice ha respinto l’accusa, affermando che l’uso di Google non trasgredisce il diritto d’autore in quanto è un esempio di fair use. Ma che cos’è, esattamente, il fair use? Si tratta di un concetto legislativo proprio degli Stati Uniti e del mondo anglosassone e solo in parte recepito dalle leggi europee (ancora meno in Italia). Può essere tradotto con “utilizzo leale” o “legittimo” e sta a indicare la possibilità di citare e incorporare una parte di un contenuto coperto da copyright a fini didattici, di critica o di informazione, rispettando alcune condizioni come “promuovere il progresso della scienza e delle arti”.
Nonostante l’assoluzione finale, per molti la titanica opera di digitalizzazione di Google è un progetto controverso, avvolto da un’aura di mistero. Oltre all’azione legale portata avanti dall’Associazione statunitense degli autori, l’iniziativa ha ricevuto critiche da svariate direzioni, in parte riassunte in un documentario della BBC, Google and the world brain. In esso, Evgeny Morozov, il critico del “soluzionismo tecnologico”, accusa Google di ipocrisia poiché si presenta come un’associazione benefica per il progresso dell’umanità piuttosto che come una multinazionale con fini di lucro. Morozov puntualizza che l’azienda di Mountain View si preoccupa delle conseguenze dei propri progetti solo dopo che sono stati attuati, e Google Books ne è un chiaro esempio. Già nel 2005, inoltre, il presidente della Biblioteca Nazionale di Francia, Jean-Noël Jeanneney, rifiutò di concedere i propri libri a Google accusando gli USA di imperialismo culturale. Altre critiche si concentrano sul fatto che Google sta costruendo un monopolio sui libri ancora protetti da copyright ma che non sono più stampati da nessuno (i cosiddetti orfani), di cui sarebbe, di fatto, l’unico distributore. Il processo appena concluso è stato, inoltre, utilizzato come scusa per non rivelare alla stampa i dettagli sull’operazione.
Il progetto Books si presenta come una versione aggiornata della biblioteca universale, una sorta di biblioteca di Alessandria 2.0, ma perché Google vuole digitalizzare il patrimonio librario globale? Google sta acquisendo la memoria stampata di un’ampia porzione della società occidentale, eppure il lavoro non è sempre adeguato e non sembra del tutto rispettare gli standard di digitalizzazione sostenuta da altri enti di conservazione dei beni culturali. Il colosso del web vuole aggiungere tutti i libri per migliorare la propria ricerca. Questo è il motivo per cui la motivazione del processo è stata pretestuosa, poiché ha puntato l’attenzione sulle sole problematiche legali riguardo al diritto d’autore. E in effetti Google non rende disponibili i libri per intero, tranne quelli che non sono più coperti da diritti. Per le leggi americane dunque le meccaniche di Books sono legittime poiché trasformano il contenuto dei libri rendendone consultabile solo una minima parte. In questo senso, inoltre, Google Books porta un contributo effettivo poiché funziona come un indice di tutti i libri pubblicati nella storia. E da poco ci sono anche le riviste e i magazine.
Eppure la domanda da porsi è un’altra: chi è il destinatario della monumentale opera di digitalizzazione? La poca accuratezza nella scannerizzazione ottica dei volumi è un indizio di come quello che interessa nel progetto Books è la quantità e non la qualità. Il lettore ideale di Books non è un essere umano, ma una macchina. Books è il modo in cui Google ha incorporato il patrimonio di conoscenza prodotto dall’umanità nel corso della sua storia. Che se ne farà dunque Google di questi dati? Migliorerà il suo prodotto più famoso, Google Search, che diventerà ancora più preciso. Google sta però mettendo a segno un gran colpo. Si è costruito un serbatoio abbastanza comprensivo di tutta la conoscenza prodotta. Non è una biblioteca, è un database semistrutturato di informazioni che può essere indagato ed esplorato da algoritmi semantici in modi che probabilmente non esistono ancora. Google ha dunque fatto scorta di informazioni per l’inverno, prendendosi tutti i libri. Eppure prendendosi i libri, allo stesso tempo non li ha sottratti a nessuno. E poiché Google ha le capacità di analisi e data mining più sofisticate al mondo, quello che potrebbe fare con un tale patrimonio non sarebbe in ogni caso possibile a nessun altro. L’Author Guild ha comunque fatto sapere di non essere d’accordo con la sentenza e che ricorrerà in appello.