Ovviamente – come tutti – non conosco ancora i dettagli della vicenda giudiiziaria di Gabriele Paolini, non so con quali prove lo abbiano arrestato, che cosa cioè abbia fatto esattamente, e perché, con i minori per cui è finito in carcere, che tipo di materiale avesse tra le mani, video pedopornografici o chissà quale altro orrore: di questo si potrà parlare solo dopo aver visto le carte, ma fin da ora mettono i brividi le prime indiscrezioni sul sesso a pagamento contrattato con i ragazzini davanti alle telecamere, sui video porno realizzati, sui soldi pagati per le prestazioni.
Conosco invece abbastanza bene la carriera pubblica di Paolini visto che – per me, come per quasi tutti coloro che fanno televisione – era impossibile non ritrovarselo davanti agli occhi, dentro una diretta, in mezzo a una scaletta, con il ruolo di perturbatore in un programma. Lo incontravo spessissimo sul campo nei più disparati luoghi di cronaca. Da quasi vent’anni, infatti, Paolini si era votato alla missione di essere l’incursore della televisione italiana, il persecutore dei giornalisti, una sorta di entità capace di fissare un record da Guiness dei primati.
Facilissimo dunque era ritrovarselo sulla scena: più difficile capire che cosa facesse dietro la scena. Fin dalle prime apparizioni, infatti, su di lui aleggiava una sorta di mistero: era solo un esibizionista? Aveva un qualche suo diverso tornaconto? Era mosso da qualcuno? Fin dai primi anni Novanta, quando Paolini ha compilato una sua succinta autobiografia, pubblicata in volumetto, e prontamente distribuita ai giornalisti: l’autoproclamato “profeta del condom” meritava di essere un caso di studio.
Ricordo in particolare la micro-inchiesta che facemmo su di lui, prima di ospitarlo in una puntata di “Chiambretti c’è”, nel lontano 2001: lo stesso Paolini raccontava delle sue difficoltà familiari, di un padre autoritario che rifiutava la sua omosessualità (o che non l’accettava bene), ma che allo stesso tempo, visto che le cose sono sempre complesse, diceva anche di raccomandare per un posto da spettatore-figurante nei programmi del pomeriggio della Rai. Ricordo che Carlo Freccero, dopo aver teorizzato che «Paolini è l’anti materia della televisione italiana», accettò di ospitarlo in uno studio (credo sia l’unica comparsata non “estorta”) solo a patto di crocifiggerlo simbolicamente alla “T” di tv. Che Paolini tenesse alla sua professione di “videoartista”, con entusiasmo quasi infantile, era evidente: «Il mio record si riassume in due numeri: 30mila comparsate e tremila querele». Raccontava di aver cominciato la sua crociata, in modo ossessivo, in omaggio un amico morto di Aids, e per questo le sue prime incursioni erano apparentemente votate solo alla propaganda dei profilattici, al punto che qualcuno si era convinto che fosse il testimonial occulto di qualche campagna pubblicitaria: non era così, ma, allo stesso tempo, emergeva già allora una sorta di doppio ruolo.
Per reinvestire e far fruttare la sua popolarità mediatica, dopo aver esibito certificati e primati, il profeta si guadagnava da vivere anche facendo il presentatore di spettacolini più o meno osé. Negli ultimi tempi aveva annunciato l’ingresso ufficiale nel porno come attore. Paolini animava decine di siti, dove nel corso degli anni aveva dedicato invettive e querele ad amanti traditi, ora dipinti come creature del desiderio, e dopo alcune delusioni sentimentali, ribattezzati come “marchettari”, e insultati con accenti di disperazione. Il sito stesso di Paolini – il suo personale – era una sorta di zibaldone di sofferenze, uno scrigno dove riporre tutto, un diario in pubblico in cui si sommavano interviste più o meno apocrife (molte fatte dallo stesso Paolini) ai protagonisti del suo universo: denunce, ritrattazioni, lettere di avvocati, perizie mediche.
Negli ultimi anni Paolini si era trovato sia un concorrente, un antagonista-sfidante, sia un ammiratore-imitatore: ovvero un ragazzino che compariva al suo fianco nelle comparsate tv, perché faceva l’apprendista di questo mestiere complesso in cui lui era diventato maestro, quello di studiare la televisione in modo maniacale e cercar di varchi una diretta e l’altra. Chiunque andava sui luoghi degli eventi poteva trovare “il profeta” con un telefonino tv in mano. Sullo stesso sito si trovava il suo palmares di successi: i calci di Paolo Frajese, le foto con Papa Woytyla e quelle con madre Teresa, gli scambi di insulti feroci con Emilio Fede: «Mascalzone, carogna, vai a lavorare!». Oggi l’ex direttore del Tg4 aggiunge: «È vero, ho litigato con Paolini, che mi faceva impazzire, ma l’ho anche usato, durante le sue incursioni, per dare sapore alle dirette, come un ingrediente. Per questo – ricorda Fede – devo rivelare questo retroscena: Paolini venne nel mio ufficio, a Milano, e si mise in ginocchio chiedendomi di ritirare la querela. Lo feci, perché mi fece pena, e dovetti tenere aperta la finestra per tre giorni perché non si lavava».
Insomma, Paolini era l’antitelevisione, ma viveva in televisione. E la tv aveva timore di questo personaggio che cresceva come un parassita nel suo grembo. Solo così si spiega l’ultimo e più grande paradosso di questa storia: lo strumento che non volendo aveva reso Paolini familiare al grande pubblico, per questo stesso motivi non lo aveva mai raccontato. La cronaca dunque ci restituisce un’immagine scissa, quella di un Paolini alla luce del sole, ed uno lunare: uno così pubblico da essere di casa per tutti, uno così segreto da poter essere imputato di reati mostruosi. Forse questo dovrebbe farci riflettere – anche – su questa incredibile debolezza del grande circo mediatico: una macchina che da oggi, dopo averlo subito, sarà costretto a occuparsi di un suo figliastro nemico.