Torino Film FestivalLa mafia uccide solo d’estate: una buona prima prova

Torino Film Festival

Pif e Angelino Alfano forse non la pensano ma certo la titolano quasi allo stesso modo: il film del primo, presentato in concorso al Torino Film Festival, si chiama La mafia uccide solo d’estate, l’ultimo libro del secondo, uscito due anni fa, La mafia uccide d’estate. Invero va detto che “il testimone” quando uscì il volume si era anche mezzo imbufalito per la presunta sottrazione d’opera, da lui immaginata da parecchio. Ma non è questa l’unica somiglianza: pur realizzate con spirito e punti di vista diversissimi (l’una è una commedia di formazione, l’altro il resoconto delle esperienze di un ministro della Giustizia), le due opere che omaggiano i nemici della mafia caduti negli anni, sono costruite attraverso analoghe figure che ritornano: Falcone e Borsellino, naturalmente, ma in particolare Rocco Chinnici, Boris Giuliano, Carlo Alberto Dalla Chiesa, meno ricordati dei due giudici, e che nel film di Pif diventano veri personaggi, interpretati da attori, che interagiscono col giovane protagonista.

Pif racconta la storia di un palermitano, Arturo, la cui vita viene profondamente influenzata dalla mafia, da quando fu concepito (nel garage avveniva un delitto) passando per quando nacque (veniva eletto Vito Ciancimino sindaco) e continuando nella crescita e l’ingresso nell’età adulta (attraverso ulteriori episodi di sangue e avvicendamenti al vertice di Cosa Nostra).

C’è un punto fondamentale in questa storia: la Democrazia Cristiana. Come si sa, Alfano nasce nella Dc, sulle orme del padre, agrigentino fanfaniano (fanfaniani peraltro anche i Renzi, in quel di Firenze). Non sappiamo Pif, di certo Arturo alimenta, per vocazione tutta personale, un culto fervente nientemeno che per Giulio Andreotti. E’ un giovanissimo andreottiano di ferro, un fedele così convinto e puro come nemmeno Mussolini nel Ventennio li ebbe tra i giovani balilla: ritaglia le sue foto sul giornale, si fa fare i poster da appendere sopra il letto, a Carnevale non si traveste da Zorro ma da Belzebù, nel senso del Divo Giulio. Tutto perché ha ascoltato Andreotti da Costanzo a Bontà loro raccontare la propria storia d’amore che gli ricorda tanto la sua cotta con la coetanea Flora. Per li rami andreottiani, si finirà a Lima, nel senso di Salvo: Flora è nel frattempo diventata prima assistente dell’Onorevole, Arturo è chiamato a raccontarne da giornalista tv (che è diventato il suo mestiere) la campagna elettorale in città (a ritmo dell’unico mantra: «La Sicilia ha bisogno dell’Europa, l’Europa ha bisogno della Sicilia»). Poi però i proiettili di Cosa Nostra cambieranno di nuovo il quadro.

La mafia uccide solo d’estate che Pierfrancesco Diliberto (si firma così da regista e sceneggiatore, Pif come attore) ha scritto con Michele Astori e Marco Martani, è una piccola commedia che possiede grandi ambizioni ben amalgamate nella propria struttura. Realizzata dalla Wildside con Rai Cinema senza grandissimi mezzi, si fa apprezzare per la costruzione dei personaggi e la loro evoluzione, trovando i tratti più felici soprattutto nella prima parte. La seconda metà del film appare invece più sfilacciata, concludendosi con un happy end familiare e l’omaggio (commosso e anche commovente) alle vittime eccellenti di Cosa Nostra, che però sono un po’ appiccicati. Nulla sappiamo di cosa fanno, come campano Arturo e Flora divenuti nel frattempo genitori, che hanno elementi di contiguità parentale (lei soprattutto) con il blocco di potere che domina Palermo. Che scelte hanno fatto? Su quali decisioni si basa la loro anti-mafia? La storia peraltro finisce nella prima metà dei Novanta, e quindi non è nemmeno menzionata una vicenda che in teoria sarebbe fondamentale per il film, visti il tema e i personaggi: il processo per mafia ad Andreotti.

Insomma, qualche pecca c’è, ma in ogni caso un buon esempio di cinema che coniuga impegno, riflessione sociale e intrattenimento: quello che manca al Veronesi di L’ultima ruota del carro, assai più ricco produttivamente. Di mafia si può parlare in forma inedita e la si può rappresentare utilizzando il grottesco e il comico amaro (il film riprende alcuni spunti e passaggi del Divo di Sorrentino, ma in modo meno stilisticamente affascinante e più orientato alla black comedy). Una bella scommessa provarci.

Un film che in Italia non si farebbe mai è invece il canadese The Grand Seduction di Don McKellar, che racconta in forma di commedia le avventure di una piccola comunità per avere una fabbrica… del petrolchimico! Stufi di sussidi di disoccupazione, di emigrazione, di zero welfare, di abbruttimento, con il mega impianto che tratta le scorie del petrolio arriveranno invece i soldi in tasca, il servizio sanitario migliore del paese, le scuole come si deve… Provate anche solo a proporre una cosa del genere nel paese di Taranto, Gela o Marghera, e finite giustamente dritti dritti in Tso.

Paolo Virzì, neo-direttore del festival, si gode numeri sorridenti: più 30% di incassi e presenze in aumento. La rassegna “New Hollywood” sul cinema americano indipendente degli anni sessanta-settanta è tra le più belle degli ultimi anni: sarebbe cosa buona e giusta se circolasse. Buonumore particolare specie tra pubblico e stampa non torinesi ma juventini: venuti per il cinema, si trovano pure la Champions League in città. Trasferte allo stadio, biglietti a ruba.

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