No, scusate, non ci crediamo: la scissione cortese è una balla. Iniziamo col dire che la scissione del Pdl, la scissione “in guanti di velluto”, vìola tutte le regole della storia e della politica. Non si sono mai visti, infatti, degli scissionisti che inneggiano al capo, dei congiurati che esaltano il leader, proclamandosi più fedeli a lui di coloro che gli restano fedeli. E nemmeno un leader abbandonato che quasi vezzeggia coloro che lo stanno lasciando offrendogli una nuova alleanza.
La prima scissione della storia repubblicana, quella di Palazzo Valentini del 1947, infatti, fu una scissione ideologica, tra i socialisti e socialdemocratici, tra atlantismo e anti-atlantismo, tra massimi sistemi e idealità non conciliabili. La scissione fra Psi e Psiup, nel 1964, degenerò subito nella diffamazione, nel nomignolo, quelli che se non andarono furono chiamati da chi restava “i carristi”, perché si diceva che stavano dalla parte dei carri armati sovietici. E questa non era nemmeno la più feroce tra le tante invettive che piovvero sulla testa dei due leader, Vecchietti e Valori, e degli altri psiuppini.
La scissione di Democrazia Nazionale dal Msi, nel 1977, quella che lasciò orfani i missini di Almirante, fu ancora più cruenta, portó fuori dal partito della Fiamma la maggioranza dei parlamentari e fu il pretesto per la creazione di un vocabolo contundente, tutto immerso nella storia della destra nazionale, una ingiuria che suonava così: “Venticinqueluglisti!”. Era come dire che chi lasciava il Movimento Sociale ripeteva il tradimento oltraggioso del 1943, il più grave che si fosse conosciuto fino a quel giorno, per chi veniva dalla storia postfascista.
Non parliamo di che cosa accadde in casa comunista, nel 1968 quelli del manifesto furono radiati, ovvero allontanati dal Pci dopo un processo in Comitato centrale. Nel 1989 poi, la scissione di Rifondazione fu così sanguinosa che Achille Occhetto si beccò una querela per essere andato a ripetere in giro che quella separazione era stata addirittura pagata. Furono cambiate le serrature delle sezioni, si ruppero le famiglie, fece epoca la lettera di una moglie, che, sull’Unità, diceva di non riconoscere più suo marito perché era rimasto fedele ad Occhetto.
Le scissioni portano con sé il sangue, le invettive, la lotta per il primato. Persino una scissione atipica come quella del Partito Radicale, negli anni ’60, nacque da una disputa feroce intorno una persona, intorno un equivoco, intorno a una pretesa di autenticità ideale, fra i pannelliani, e i vecchi liberali. A sinistra, per giunta, il rito si è ripetuto per tutti gli anni Novanta, con le micro scissioni che hanno riguardato prima i comunisti unitari, e poi il Pdci. La scissione di Crucianelli da Rifondazione vide il rito simbolico del pianto di Marida Bolognesi nell’Aula di Montecitorio, quella di Cossutta e Diliberto da Bertinotti comportò ingiurie e sganassoni. Lo strappo della fiamma tricolore da An dopo Fiuggi si celebrò con toni cupi e grandi invettive. E la rottura più recente, quella fra i finiani e pidiellini, fu un romanzo di scontri televisivi senza tregua, così laceranti, che nel celebre discorso dell’auditorium, Silvio Berlusconi nominó come esempio di incompatibilità, uno scambio di insulti fra Raisi e uno dei dirigenti a lui più vicini in una trasmissione televisiva del giorno prima.
Sembra davvero incredibile, quindi, che oggi gli alfaniani vogliano separarsi da Berlusconi dicendo di volergli bene più di coloro che gli restano vicini, e che Berlusconi li definisca affettuosamente cugini, annunciando che presto ricomporranno un’alleanza comune. In realtà la scissione, questo fragile compromesso di ipocrisie e di amorosi sensi, si regge su un equilibrio precario, quello delle larghe intese. Se il governo salta con Pd e Pdl che votano diversamente, c’è da giurarci, la scissione di velluto diventerà molto rapidamente una scissione di carta vetrata.