E ora? Ora che liquida avversari su avversari, che ne sarà del mito della sfiga che tanto pazientemente l’Atlético Madrid ha cercato di costruire nella sua storia? Cosa faremo con quel soprannome, “El pupas”, (Lo sfigato) che lo accompagna dai tempi della finale di Coppa Campioni 1974 (pareggio subìto a trenta secondi dalla fine, si va al replay e non c’è più storia: 4-0 per quel grande Bayern Monaco), e che quasi sembra gonfiare il petto dei tifosi colchoneros più dei pur numerosi trofei vinti? E per andare allo stadio Vicente Calderón si percorrerà sempre il Paseo de los melancólicos, o il Comune ne cambierà il nome in Paseo de la mentalidad ganadora? E il papà di quel famoso spot per una campagna abbonamenti di qualche anno fa che, fermo al semaforo, (non) risponde con un attonito silenzio al figlio che chiede «¿Por qué somos del Atleti?», verrà per caso sostituito da uno yuppie ghignante che passando col rosso ribatte: «Perché siamo vincenti, perché siamo cool»?
Il rischio è più apparente che reale, perché questo Atlético che non perde mai (o quasi, solo una sconfitta contro l’Espanyol, non a caso individuato dai critici come la copia in piccolo dello stesso Atlético) non avrà comunque mai il richiamo mediatico del Barça del tiqui-taca, né le possibilità finanziarie illimitate di altre grandi europee. L’Atlético Madrid reso indistruttibile dal “Cholo” Simeone non è spettacolare, non propone nessuna ricetta rivoluzionaria e non cerca di accattivarsi facili simpatie strizzando l’occhio a mode imperanti. Il “Cholismo”, uno stato d’animo più che una filosofia di gioco, è consapevolezza dei propri limiti e fatica. In questo momento l’Atlético Madrid è la miglior squadra spagnola solo perché sa di non esserlo, e se cominciasse a crederlo in un nanosecondo da Atlético Madrid tornerebbe a essere il Patético Madrid dei primi anni 2000. Anche ora, anzi ora più che mai, è la squadra del papà fermo al semaforo.
(Ri)costruire dalle fondamenta
Del resto, i limiti devono restare più che mai presenti se si pensa che questa rosa in gran parte è la stessa che, al momento dell’arrivo di Simeone al posto dell’esonerato Manzano (fine 2011), stava quasi toccando il fondo. A parte le cessioni prima di Diego e poi di Falcao, rimane intatta la colonna centrale: Courtois tra i pali, Miranda e Godín difensori centrali, Mario Suárez e Gabi mediani (attorno ai quali si muovevano già allora i vari Tiago, Koke, Filipe e Arda Turan). Persino il cambio di ruolo di Juanfran, ex ala destra arrivata alla Nazionale dopo la conversione a terzino, era stato già proposto da Manzano.
Ciò che cambia è la logica: Simeone ha rimesso a camminare sui piedi una squadra persa con la testa tra le nuvole, in tentativi di rombo a centrocampo e salida lavolpiana che rischiavano di esporre al ridicolo giocatori inadeguati al compito come Gabi e ancor di più Mario Suárez, tanto criticati allora quanto punti di forza adesso.
In fondo, un grande allenatore si vede proprio da questo, nel migliorare il rendimento dei suoi giocatori più deboli fino a farli diventare/sembrare forti. Ora, tanto per dire, Mario Suárez fa parte del giro della Nazionale. Il lavoro di Simeone è stato talmente efficace da rischiare di annebbiare la capacità di giudizio sui singoli giocatori dell’Atlético: che il livello reale di Mario non sia da Nazionale lo si capisce, così come possiamo giurare sulla natura assoluta del talento di Courtois, ma ad esempio il confine fra capacità individuali e benefici di un contesto favorevole nell’attuale Miranda, che ha un controllo della situazione irreale e risolve tutte le situazioni con impressionante eleganza (il lato più riflessivo di una coppia che funziona come un orologio, con Godín più energico e portato all’anticipo), non sarà mai del tutto chiaro.