Ci sono quattro giorni tra ottobre e novembre che più di tutti incarnano l’americanità. Quella primordiale, tradizionale, antica a beneficio di un popolo relativamente giovane. Quei quattro giorni a cavallo tra ottobre e novembre – sette se va male – in cui le sorti della Nazione si decidono sul diamante. I giorni delle World Series.
Il baseball non è soltanto uno sport, è un rumore di fondo, continuo e rassicurante, è il gioco che alimenta l’orgoglio delle città, che traccia i contorni delle appartenenze dei singoli, che ne costruisce l’identità. Sono i colori delle persone che si traducono in berretti – “this is not a cap, is a flag” recitava il claim di New Era (il produttore del merchandising ufficiale di tutte le squadre MLB) fino a qualche anno fa, e non esiste affermazione più sincera. Il baseball è la bandiera, è il biglietto da visita, è la ragione comune che molto spesso è sembrata mancare al popolo più diviso e multiforme del mondo. Non so dove nasca la familiarità, il senso di tranquillità e compostezza che impregna una partita di baseball e che è in grado di abbracciare anche chi non lo ha mai seguito, chi non ne capisce nulla. Non saprei dire come è iniziata, ma se dovessi tirare a indovinare direi che il segreto sta nel teorema secondo il quale nel baseball non c’è niente di veramente imprevedibile. È statistica, sono numeri, è un gioco ad incastri. Il successo o l’insuccesso di una squadra è determinato dalle scelte manageriali, quasi più che dalle prestazioni in partita – al netto dei miracoli, naturalmente. Basta fare attenzione alla regular season, e diventa piuttosto facile pronosticare cosa succederà in quei quattro giorni tra ottobre e novembre. È la realizzazione del sistema americano nella sua forma più completa: i piani sono fatti, se tutto va come deve andare siamo a cavallo.
Forse è anche grazie a questa relativa prevedibilità, a questo costruire le prestazioni a priori, che il baseball ha finito per diventare fucina di leggende e superstizioni, ricettacolo di riti e religioni improprie. Come se si fosse caricato del compito di tessere quell’intreccio di tradizione pagana a cui in Europa siamo abituati ma che mancava in una Nazione giovane come gli Stati Uniti. Sia come sia, ogni squadra ha i suoi fantasmi, il suo voodoo che la tiene in piedi e assieme a lei tiene in piedi la città a cui è legata. Ed è proprio questo legame che, se infranto, costituisce la prima delle maledizioni. Basti pensare ai Dodgers che, come spesso si usa nello sport professionistico americano, hanno abbandonato Brooklyn prima dell’inizio della stagione nel 1958, lasciando orfana di una squadra proprio quella città nella città che ne aveva più bisogno e caricandosi di una maledizione figlia del rancore dei tifosi più affezionati, che li avrebbe inseguiti a Los Angeles, e che ancora oggi dividono con i Giants di San Francisco – al secolo Manhattan – di non ottenere mai una vittoria alle finali contro le altre squadre di New York. È successo naturalmente, onore alla prevedibilità, ma tutte le leggende hanno una controprova misteriosa.
Poi ci sono le cenerentole, quelle che non dovrebbero vincere mai e proprio quando sembra che sia tutto perduto – è generalmente sempre una questione di soldi – danno un colpo di coda così deciso da spazzare via tutto il bad mojo che avevano addosso e si sollevano dalla polvere. È il caso degli Indians, di Cleveland, che per ben due volte sono arrivati vicino al dover lasciare la propria città, ma che entrambe le volte hanno trovato la forza di arrivare alle finali di divisione, assieme a nuovi contratti con gli sponsor, naturalmente. È il caso degli Athletics, di Oakland, che a un passo dal chiudere baracca, nel 2001, hanno trovato una combinazione alchemica efficace tra statistiche e scelte di mercato, abbastanza fortunata da tenerli a galla con margine di profitto. Certo è qualcosa che più che alla magia somiglia alla matematica, e ci sarebbe da pensare che non ci sia niente di soprannaturale a imbroccare i giocatori giusti, ma la brava gente di Oakland potrebbe controbattere che se fosse così semplice ci arriverebbero tutti, qualcosa sotto deve esserci per forza.
Quest’anno, pochi giorni fa, le World Series le hanno vinte i Red Sox, di Boston. 4-2 contro St.Louis. Coronando un’ottima stagione, figlia di una stagione pessima, una delle peggiori della loro storia e della storia della MLB. Era tutto previsto: poco prima della regular season è stato annunciato dalla società l’allontanamento del manager Bobby Valantine, e gli appassionati sanno che una mossa del genere porta alla vittoria o alla rovina. Anche per i Cardinals niente di nuovo, sono una buona squadra, solida, seconda soltanto agli Yankees per numero di vittorie – undici contro ventisei – e hanno fatto una buona stagione. La cosa curiosa di queste finali, anche piuttosto combattute, è che replicavano alla lettera quelle di nove anni fa, nel 2004, anno in cui i Red Sox si sono scrollati di dosso la più grande, appiccicosa, inquietante maledizione di tutta la storia del baseball. The curse of the Bambino.
Anche se l’espressione pare sia stata coniata solo nel 1990, il mojo risaliva al 1918 ed è durato per ottantasei anni, nel corso dei quali i Red Sox non hanno mai vinto le World Series. Tutto è cominciato con la cessione da parte dell’allora proprietario Harry Frazee di Babe Ruth, lanciatore e leggenda indiscussa del baseball, agli Yankees, per finanziare la produzione (pare) di un musical a Brodway: No, no, Nanette! Fino ad allora, nei quindici anni di esistenza della lega, i Red Sox avevano inanellato cinque vittorie alle finali, gli Yankees nessuna. Ruth, dal 1920, si rivelò per quello che era e inaugurò una serie impressionante di successi per la squadra di New York, mentre la sua maledizione – del Bambino, Babe, appunto – fece impantanare Boston in un alternarsi di illusioni e sconfitte che sarebbe durata fino al 2004. Solo battendo gli Yankees nella regular season, si mormorava, avrebbero potuto vincere le World Series e tutte le volte che ci sono andati vicino, il fantasma del Bambino si è ripresentato per ricordare ai fan dei Red Sox che non era dato, a una squadra maledetta, di vincere le finali senza pagare pegno.
Nel 1946, 1976 e 1986 i Red Sox sono arrvati alle finali, perdendole sempre alla settima gara, nella stagione regolare sono caduti due volte favoriti contro i Cardinals, poi contro i Cincinnati Reds in stato di grazia della stagione 1975, passati alla storia come Big Red Machine.
I tentativi di rompere la maledizione sono stati numerosi e fantasiosi, oltre che tutti inutili. È stato portato un berretto dei Sox in cima al monte Everest, mentre molti berretti degli Yankees vennero bruciati al Fenway Park – storico stadio di Boston. Padre Guido Sarducci, noto esorcista, è stato chiamato due volte a benedire il campo, così come venne invitata una santera Venezuelana, che però non è mai arrivata mai negli Stati Uniti a causa – così dice la tradizione – del clima avverso causato dal Niño. Nel 1994, Bill Lee, ex giocatore dei Sox, suggerì di esumare i resti di Babe Ruth e riportarli al campo, con scuse formali delle dirigenze, in un macabro slancio di disperazione. Preghiere, scongiuri e invocazioni sono state sparse sulla strada per lo stadio nel corso degli anni, il più famoso è senz’altro il cartello stradale “reverse curve” – curve pericolose – modificato in “reverse the curse” – invertire la maledizione – che non venne tolto fino a che il mojo non fu dichiarato estinto. Era il 31 Agosto 2004, quando un fan sedicenne di Boston, che viveva a Sodbury, nella fattoria un tempo proprietà di Ruth, venne colpito da una palla battuta da Manny Ramirez, quello stesso giorno gli Yankess subivano la sconfitta più cocente di tutta la loro storia: 22-0.
Quanto ci sia di vero e quanto sia frutto di un condizionamento di massa, unito a un bel po’ di sana sfortuna e scelte manageriali poco azzeccate, in tutta questa faccenda, non è dato da sapere. Di sicuro c’è che, dopo il 2004, molti giocatori hanno preso la via che fu di Ruth a caccia di contratti migliori, e Boston si è trovata non più maledetta, ma sempre in difficoltà. Ci sono voluti nove anni di ricostruzione per tornare alle finali, e questo potrebbe dipendere da una ricaduta dell’anatema come, semplicemente, dal fatto che senza la determinazione di chi deve battere qualcosa di paranormale, oltre che nove giocatori possibilmente migliori, le difese corrono il rischio di abbassarsi e anche i fan più affezionati, quelli dei cartelli “noi ci crediamo” al Fenway Park, senza paura e senza vergogna, cominciano a rivedere la loro posizione. Il baseball, in fondo, è quell’equilibrio relativo tra il pragmatismo assoluto e l’assoluta superstizione che tiene in piedi una tradizione centenaria e incarna il vero spirito di quell’America che tra la bibbia e la ragione sceglie una via di mezzo. Quest’anno è andato tutto come doveva andare, secondo le statistiche e i numeri, chissà che l’anno prossimo non sia il tempo di spezzare una nuova maledizione.