Una firma di tutto riposoNelle fondazioni bancarie serve la democrazia diretta

Come riformare i “sarchiaponi”

Ormai sono passati più di venti anni. Nel 1990 la cosiddetta legge Amato-Carli (legge 218 del 1990) “privatizzò” gli istituti di credito in mano pubblica in una forma abbastanza particolare, forma che giustifica le virgolette attorno alla parola “privatizzò”. Le funzioni no profit precedentemente svolte da tali istituti di credito furono specificatamente affidate a fondazioni che detenevano il 100% della banca vera e propria. Si trattava dunque di uno spacchettamento delle funzioni con e senza scopo di lucro, senza però necessariamente obbligare alla vendita dei pacchetti azionari delle nuove SPA bancarie create, pur rendendo tale vendita possibile. Con la legge delega Ciampi del 1998 e il decreto legislativo dell’anno successivo fu infine previsto l’obbligo per le fondazioni di cedere entro un certo lasso di tempo il controllo delle SPA bancarie stesse. Non è mai bello quando il padre prende a male parole i figli: in questo caso Giuliano Amato – a cui si deve la creazione di questi enti a metà tra il pubblico e il privato – definì le fondazioni bancarie un “mostro giuridico”. In maniera più benevola e nazional-popolare le potrei definire un Sarchiapone giuridico. 

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La natura sarchiaponica è stata altresì confermata da una sentenza della Corte Costituzionale del 2003, secondo cui le fondazioni bancaria sono enti privati con finalità pubbliche, ad esempio in campo sociale, culturale e assistenziale. Più di vent’anni dopo la loro nascita, un rapporto di Mediobanca Securities del 2012 ha sottolineato difetti importanti nel funzionamento delle fondazioni bancarie: dai costi di gestione elevati e sproporzionati rispetto all’ammontare delle elargizioni a cui dovrebbero dedicarsi per statuto, alla scarsa diversificazione degli investimenti patrimoniali; da un eccesso di nomine politiche negli organi esecutivi delle stesse, alla presenza di una preoccupante correlazione tra il settore professionale di appartenenza dei membri del comitato di elargizione e il settore maggiormente beneficiato da tali elargizioni. Le fondazioni bancarie non l’hanno presa benissimo. Qui potete trovare una contro-risposta al report di Mediobanca da parte della ACRI (Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio SPA). 

Sono ben lungi dal ritenere che il privato sia sempre bene o il pubblico sempre male (o viceversa), ma in questo caso è la natura sarchiaponica delle fondazioni bancarie a creare problemi di accountability, cioè di mancata responsabilizzazione degli organi esecutivi per le decisioni prese, da cui seguono molti dei difetti di gestione segnalati da Mediobanca nel suo rapporto. Detto in altri termini: con chi me la prendo se la Fondazione Bancaria presente nel mio territorio elargisce i propri fondi in maniera arbitraria o che comunque giudico poco sensata? Un primo passo in avanti consiste nell’aumentare il grado di trasparenza, rendendo più chiari i criteri di elargizione e pubblicando non soltanto l’elenco dei progetti finanziati, ma anche quello dei progetti non finanziati, con apposita classifica dei promossi e dei bocciati. Lo scopo è presto detto: in questo modo è più semplice da parte del pubblico verificare se i criteri di elargizione definiti ex ante sono stati rispettati ex post, cioè al momento di “cacciare la grana”. A parte il tema della trasparenza, le nomine di membri del comitato di gestione delle fondazioni da parte di associazioni di categoria complicano il tema dell’accountability. È giusto che scelte di elargizione importanti per un certo territorio siano prese da persone nominate da associazioni di categoria?

Qui sia Mediobanca che ACRI a mio modesto avviso sbagliano, rispettivamente lamentandosi delle troppe nomine politiche e respingendo tale accusa al mittente. Io preferisco nomine politiche. Detto in termini più politici: ritengo che sia molto più sensato estendere al massimo grado il controllo democratico sulle fondazioni. Tutti i membri del comitato di elargizione siano scelti a livello locale, cioè comunale, provinciale o regionale. Il meccanismo naturale sembrerebbe dunque quello di una nomina da parte di chi esercita il potere esecutivo a livello locale, cioè sindaci, presidenti di provincia o governatori. Ma non credo si tratti della soluzione migliore, in quanto si finisce per allungare di uno la lista dei temi sulla base dei quali gli elettori devono decidere se rieleggere il partito o la coalizione attualmente al governo, in quanto devo giudicarli anche per la qualità delle nomine presso la fondazione bancaria in questione. Se questo tema delle nomine è poco saliente agli occhi degli elettori, il rischio è che il “nominante” non venga mai giudicato in maniera puntuale per la bontà di queste nomine stesse. Parentesi per i nerd: si tratta del concetto di issue bundling, introdotto dagli economisti Tim Besley e Steve Coate. Sub-parentesi per i giustizialisti: c’è un conflitto di interessi, in quanto Besley è stato mio professore a Londra.

La soluzione che propongo è invece quella di uno spacchettamento dei voti (issue unbundling): la legge deve prevedere che gli elettori – un po’ all’americana- eleggano direttamente il membro locale del comitato di elargizione della fondazione, invece che lasciare la nomina al sindaco, al governatore o al presidente della provincia. E se il membro eletto delude, se ne rielegge un altro alla prossima tornata: il tutto alla luce del sole. È il bello della (democrazia) diretta, o spacchettata.

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