Non c’è niente come George Saunders

Non c’è niente come George Saunders

Non c’è niente al mondo come George Saunders. Non è che non ci sia nessuno come Saunders, non c’è proprio niente. Non esiste niente che si avvicini così perfettamente alla realtà, al pensiero comune – quello intimo, quello vergognoso – come i i racconti di George Saunders. E lo fa senza insospettire, mascherandosi da teatro dell’assurdo: quando il lettore si rende conto di quanto profondamente è stato toccato, ormai è troppo tardi. Il libro è finito.

Ultimamente si fa molto parlare di scrittori di racconti – effetto premio nobel a Alice Munro, immagino – ma si ha la tendenza a vedere la forma racconto come qualcosa di unitario. Uno scrittore è un romanziere, e allora può attingere a un infinita tavolozza di generi, temi e modi per scrivere il proprio romanzo, oppure è uno scrittore di racconti. È quello che fa: scrivere racconti, e non è dato da saperne di più. Allora finisce che per chi non ne legge molti, o non è abituato a leggere altre forme brevi, i racconti abbiano tutti la stessa faccia. Me li immagino come un ibrido tra Carver e qualcosa del primo Hemingway. Realismo nudo, scoperto e asciutto. Il racconto, in realtà, copre una varietà infinitamente più vasta. Se è vero che gli americani sono padroni della forma, essendosi inventati il realismo minimalista e andando a esplorare la concretezza, utilizzando le stesse tecniche di microscopia da laboratorio con le quali i russi dei primi del secolo scorso esploravano gli anfratti della mente umana, è anche vero che non basta limitare le descrizioni, asciugare i dialoghi, accorciare le frasi, per definirsi minimalisti. Ci sono centinaia di sfumature di grigio prima di arrivare al bianco della pagina vuota. Ma sto divagando: non esiste niente – nemmeno in questo spettro di grigi – che sia anche remotamente paragonabile a George Saunders.

Qualche anno fa ho letto Dieci dicembre, il racconto che dà il nome alla sua ultima raccolta, da poco uscita per minimum fax, alla sua apparizione sul New Yorker, e quando ho avuto per le mani il libro ho pensato di non potermi stupire più di tanto, di sapere a cosa stavo andando incontro. Mi facevo forte di una passione per la forma breve e di una discreta conoscenza dell’autore – ma non approfondita, presuntuosa più che altro – da mettere in tasca un giudizio a scatola chiusa. Mi sbagliavo di grosso.

Quella di Saunders è sì una scrittura assimilabile al minimalismo – la cura maniacale per i termini, più che ridotti all’osso radiografati, la concretezza nelle descrizioni, l’attenzione all’armonia tra gli elementi in modo che niente dica più di quanto necessario alla narrazione – ma è anche qualcosa di completamente diverso. Innanzitutto è cruda, brutale, ma mai disturbante. Anche nelle situazioni in cui si potrebbe pensare di essere destinati a chiudere il libro, a spostare lo sguardo, a saltare qualche capoverso – quelle in cui hanno sguazzato senza pudore scrittori à la Palanhiuk, in pratica – Saunders è capace di non perdere mai il controllo. Di mantenere un sorriso al margine della bocca nel torbido delle nefandezze più totali, che dica «è tutto finto, non c’è niente di vero, è un maledetto racconto. Smettetela di prendervi così sul serio». E allora le prime pagine sono un cartone nello stomaco, orchestrate con una regia tarantiniana ma al contempo delicate e intime, piacevoli fino al momento in cui ci si rende conto di quello che sta succedendo e allora è troppo tardi per non sperare con tutto il cuore in un lieto fine. Arrivi o no, si scivola oltre con il sorriso ebete di chi sa di avere in mano un capolavoro.

Il resto del libro è un continuo salire e scendere, entrare e uscire dalle situazioni più comuni alle più assurde. Dalle circostanze più normali, tranquillizzanti, familiari che sono condannate a naufragare senza rimedio, a situazioni di un anormalità inimmaginabile, che alla fine si rivelano ben più rassicuranti di qualsiasi focolare acceso.

Poi, l’abilità di Saunders è straordinaria e ha una voce che potrebbe essere quella ruvida e gonfia di un blues di Ray LaMontagne, con dalla sua alcune atmosfere da America perduta alla Cormac McCarty. All the white/pretty horses, a seconda dei casi. È una voce diversa, che facilmente si discosta dalla norma che ha finito per caratterizzare, in un modo o nell’altro, la scala di grigi di un paio di paragrafi fa. Non è possibile confonderlo con nessun altro scrittore, di racconti o di romanzi, per scelta o per vocazione. Insomma, chi non lo ha mai letto dovrebbe farlo immediatamente, dovrebbe trovare qualsiasi cosa abbia scritto e infilarla con orgoglio nella propria biblioteca. Soprattutto se non è abituato ai racconti, perché Dieci dicembre è una cosa unica, esemplificativa non di un genere, non di una forma, ma dell’enormità di un autore.  

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